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C’è una strategia piuttosto utilizzata dai comunicatori politici: quando i tuoi argomenti sono deboli, attingi alla retorica; quando non hai dati a supporto delle tue affermazioni, manipola le statistiche; quando affronti questioni divisive, mantieniti sul vago; quando devi ammettere che qualcosa non ha funzionato, fai la vittima, perché, ricordalo bene, la colpa è sempre, sempre, ma proprio sempre, di qualcun altro.
Manco a dirlo, una delle più brave nel mettere in pratica questi precetti è la nostra presidente del Consiglio Giorgia Meloni. E uno dei suoi pezzi di bravura è stato certamente il discorso con cui ha chiuso l’ultima edizione di Atreju, la kermesse organizzata dai giovani di Fratelli d’Italia e ormai diventata appuntamento centrale nell’agenda politica nazionale (a proposito, avete visto la nostra inchiesta sugli Amichetti d’Italia versione Atreju?). Nel merito delle cose dette da Meloni vi rimanderei a questo debunking della nostra Annalisa Cangemi, il punto su cui invece mi interessa insistere è sulle sue scelte comunicative, su cosa ci dicono e cosa invece nascondono. E sul modo in cui sono state recepite tanto dalla sua comunità politica che dagli addetti ai lavori.
Giulia Merlo su Domani approfondisce due aspetti centrali del messaggio della leader di Fratelli d’Italia alla folla di Atreju: il vittimismo, appunto, e il respiro identitario. Questo passaggio è particolarmente interessante:
La retorica della premier è quella di sempre, in un'ideale iperbole che è cominciata con quella definizione di underdog usata alla Camera nel suo discorso programmatico per la fiducia del 2022. In quasi un'ora di intervento, ha attaccato in modo martellante il Pd, poi i sindacati che hanno organizzato gli scioperi e in particolare la Cgil di Maurizio Landini. Addirittura, la parola più pronunciata è stata «sinistra», una sorta di fantasma evocato come opposto delle posizioni della premier, ma anche come causa di tutti i mali del paese prima che al governo arrivasse lei.
[…]
Per il centrodestra, invece, Meloni ha evocato l'immagine della comunità di destino, definendo l'alleanza per negazioni: “Non siamo un incidente della storia, non siamo una somma di divisioni”. Il risultato da rivendicare è quello delle regionali: 3 a 3, invece che 5 a 1 evocato dall'onnipresente sinistra. Il riferimento alla coalizione di governo, però, finisce qui. Il noi contro di loro costantemente evocato, infatti, ha la premier al centro con il suo progetto politico.
Vittimismo e culto del capo sono al centro anche delle riflessioni di Alessandro De Angelis su La Stampa, particolarmente incisive quando evidenziano come, sia come sia, Meloni è al potere da oltre tre anni:
Avete capito chi e quanto comanda? Bene, finito il racconto del culto del capo, passiamo al capo, che per inciso è anche premier da più di tre anni. Al cronista tocca ricordarlo perché, se uno atterrasse da Marte su Atreju, penserebbe che Giorgia Meloni sta all'opposizione. È il populismo, bellezza! C'è sempre il nemico per galvanizzare la curva, il racconto pugnace, il "noi" puri e non omologati al mitico sistema e il "loro" che non ci fermeranno.
Però qui c'è un'annotazione da fare, rileggendo gli appunti. E cioè che il parco ne-mici si è molto ristretto. […]
E dunque, come si fa a scaldare i cuori audaci con le mani legate su queste cose e con l'economia ferma? Semplice, da un lato con la retorica della grandeur di “un'Italia tornata grande”, dall'altro prendendosela circa una trentina di volte con sinistra e d'intorni. Al posto della rivoluzione su banche, assicurazioni, lobby ed Europa e del rendiconto di ciò che si è fatto, ecco l'elenco dei nemici pronti per l'uso, sapientemente sopravvalutati rispetto al peso reale: Elly Schlein, la Cgil coi suoi scioperi del venerdì, i giudici che tolgono i bambini dalla casa nel bosco, ma senza esagerare per non impelagarsi nel referendum, Ilaria Salis e Greta Thunberg, il Sessantotto, Francesca Albanese e i pro-Pal, i “rosiconi” e quelli che preferiscono il kebabbaro alla cucina italiana patrimonio dell'umanità.
Piccolo inciso, con un quiz per voi che ormai seguite questa piccola rubrica: secondo voi, chi sarà stato il più solerte nel riprendere questo passaggio sui kebab e nel rilanciare la retorica meloniana della sinistra rosicona persino sul riconoscimento Unesco alla cucina italiana? E perché proprio il suo ex portavoce, ora direttore di Libero? Questo un piccolo assaggio del pezzo, peraltro scritto molto bene, va detto:
La sindrome del «kebabbaro» è un disagio che si manifesta nella sinistra quando subisce la sconfitta, non elabora il lutto, non capisce l'avversario e ogni volta che lo vede, lo sente parlare, lo immagina, perde l'orientamento, barcolla, sbatte i piedi, e cade in uno stato che oscilla tra la prostrazione e la rabbia. Dopo più di tre anni di governo Meloni l'opposizione ancora non sa chi è Giorgia. […]
L'opposizione si schiera contro l'operazione sulla cucina italiana patrimonio dell'Unesco? Il suicidio ai fornelli dei tragical-chic contro il bucatino all'amatriciana di "Lollo" (Brigida) viene dipinto con la corsa della sinistra dal "kebabbaro". Ecco un’altra bandiera della sinistra, il kebabbaro.
Dove abbiano visto questa lotta senza quartiere della sinistra tutta al riconoscimento Unesco, francamente, non è dato sapere. Ma c'è chi ha fatto un ulteriore salto di scala, riuscendo a parlare di Atreju come "lezione di democrazia", in contrapposizione al clima di odio e di intolleranza sempre della solita sinistra. Su Il Giornale, dove si nota già qualche cambiamento, addirittura Paolo Bracalini riesce a presentare Meloni e diversi esponenti della destra di governo come "vittime di censura" e accusa le opposizioni di "avere in mano i manganelli" e di non ospitare mai il contraddittorio nei loro eventi pubblici.
Anche qui, onestamente, non mi farei distrarre e andrei al punto. Che, tutto sommato è semplice: Meloni è sola al comando da oltre tre anni, sta gestendo con grande attenzione la finanza pubblica e si sta barcamenando con enorme difficoltà in un quadro internazionale estremamente complesso. Tutto qui, non c'è molto altro se non la gestione del potere per il potere. È per questo che deve costantemente rifugiarsi nella propaganda, nella retorica e nel vittimismo. Perché non ha altro da dare, se non recriminazioni e ancora promesse. Oltre alla dimensione onirica di un'Italia spavalda e vincitrice, in cui ogni cosa sta finalmente funzionando e che è pronta a cambiare le regole del gioco, in Europa e nel mondo intero.
In effetti, fossi un elettore storico della destra, sarei molto contrariato per questa rivoluzione sempre annunciata e mai cominciata. Oltre la tensione retorica, i rimandi identitari di cui anche il discorso di Atreju era zeppo, c'è solo la tensione verso la creazione di quel laboratorio della nuova destra mondiale con cui la leader di Fdi ha affascinato i suoi. Certo, a quelli dai "cuori puri e dalle gambe forti" ha garantito piccoli spazi di potere, li ha portati nei salotti che contano e nei corridoi un tempo tanto detestati. Ma poi?
Fossi un elettore novello, uno di quelli che ha creduto in Meloni magari dopo le fascinazioni per Salvini, Di Maio, forse anche Renzi, mi chiederei che fine hanno fatto le promesse per cui l'ho votata. Le accise sulla benzina, il blocco navale, la stretta sulla criminalità, tanto per cominciare. Sono passati tre anni e devo ancora sentirmi dire che è colpa della sinistra, dei giudici comunisti, dei centri sociali. Usque tandem…
Fossi ancora un disciplinato elettore di centrodestra mi farei qualche domanda su come si è finiti a replicare l'agenda Draghi in economia, sentendomi anche un po' offeso per il fumo negli occhi che vogliono buttarmi con provvedimenti come quello che promette il ritorno al popolo "dell'oro di Bankitalia". Ma sul serio tocca sentirmi dire ancora che è tutta colpa del superbonus? E poi, non eravamo quelli che avrebbero finalmente messo in riga banchieri e finanzieri?
Potremmo continuare a lungo, magari ritornando sulle ambiguità in politica estera, col ruolo di quinta colonna trumpiana nell'Unione Europea che Meloni si è ritagliata, anche prescindendo dalle posizioni dei suoi alleati e dai rapporti storicamente consolidati con i partner europei, mentre parallelamente cerca di saldare un asse con la presidente della Commissione von der Leyen.
Intendiamoci, non che sia semplice fare la rivoluzione in questo Paese e nel contesto attuale. E, soprattutto, l'incapacità dei Meloni e dei suoi nel portare a compimento imprese folli e sconsiderate è quasi una salvezza. Ma la distanza siderale fra promesse e risultati è un dato di fatto, che per ora l'abilità comunicativa della leader di Fdi riesce a nascondere (grazie anche all'arrendevolezza di parte dell'opposizione e al sostanziale controllo della quasi totalità dei mezzi di informazione).
Funzionerà ancora a lungo?