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Della possibilità che un membro della famiglia Berlusconi possa scendere in politica, per raccogliere l’eredità di Silvio, si parla ormai da anni. Per lungo tempo l’attenzione dei più si è concentrata su Marina Berlusconi, figlia primogenita del Cavaliere e di Carla Dall’Oglio, attualmente presidente di Fininvest e di Mondadori. Un diversivo, molto probabilmente. Come forse saprete, infatti, le voci ora sono sempre più insistenti: l’erede di Silvio Berlusconi sarà Pier Silvio, al momento amministratore delegato del gruppo Mediaset e presidente di RTI, poltrona dalla quale controlla le reti di famiglia.
Il ragionamento è piuttosto semplice e parte dalle profonda distanza che, al di là delle parole di circostanza e dei pubblici attestati di stima, esiste tra la visione (e gli interessi) della famiglia Berlusconi e il progetto complessivo di Giorgia Meloni. I primi segnali erano comparsi già all’indomani della larga vittoria alle Politiche del 2022 e avevano avuto una rappresentazione plastica (e, al solito, mediaticamente efficace) nel fastidio con cui Silvio Berlusconi aveva vissuto la “presa del potere” di Giorgia Meloni. Senza girarci troppo intorno, diremmo che la nuova (?) piattaforma della destra cui da tempo lavora Giorgia Meloni è ideologicamente, politicamente e strutturalmente distante da quella immaginata da Berlusconi, anche a tutela del modello su cui sono costruite le sue aziende e della rete di potere e interessi che ne è la massima garanzia. Ambienti nei quali è condivisa l’idea che, salvo repentini e mutevoli innamoramenti, gli italiani siano sempre propensi a scegliere proposte politiche moderate e polititi dall’approccio conciliante. Essenzialmente, siamo sempre alla “casa dei moderati”, ambizione mai pienamente realizzata del Cavaliere, che ora appare tanto più urgente in considerazione dello sfarinamento dell’area centrista e liberale, oltre che dalla situazione “particolare” di Forza Italia (di cui riparleremo più avanti).
La discussione non è sul “se”, dunque, ma sul “quando e come” Pier Silvio deciderà di scendere in campo. Chi scrive è convinto che siano scarsissime le possibilità che lo faccia dentro Forza Italia. Il capo di RTI sta da tempo lavorando a una operazione di personal branding a tutto campo, che è passata anche per un restyling delle reti televisive di famiglia (necessario visti tempi e sensibilità attuali). Ha un’immagine molto lontana dalla figura dei professionisti della politica, di cui FI è piena. Sa benissimo che l’attrattività del partito creato dal padre è ai minimi e che la base di consenso è legata essenzialmente a dinamiche di tipo territoriale o alla zoccolo duro degli elettori berlusconiani. Consenso che, proprio per questi motivi, non perderebbe in alcun modo. Anche, forse soprattutto, con una nuova creatura politica. La cui piattaforma politico-ideologica è praticamente già definita nel solco di quella destra liberale ed europeista, che si pone come alternativa tanto al progressismo e al radicalismo di sinistra, quanto al sovranismo e al conservatorismo identitario. E nella quale potrebbero convergere le tante anime in pena della galassia liberale italiana, oltre che gli ambienti conservatori preoccupati dallo sbocco radicale della proposta meloniana e i riformisti delusi dalle scelte radicali del Partito democratico. Insomma, lo spazio sembrerebbe esserci. Allo standing del leader si sta lavorando. Le risorse non mancano.
Già, ma quando? Il problema più grande, in effetti, è quello delle tempistiche. E sbagliarle sarebbe irreparabile. Al momento, Pier Silvio si sta muovendo con grande cautela. Ne ha dato prova alla presentazione dei palinsesti Mediaset, che alcuni analisti hanno battezzato come “una mezza discesa in campo”. Il modo in cui è intervenuto nelle vicende di Forza Italia è paradigmatico del momento e delle riflessioni in corso. Perché non solo ha praticamente messo la prima tombale al (ridicolo) dibattito sullo ius scholae, ma ha anche bonariamente bacchettato il leader forzista, nonché vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri sulla gestione del partito. Con un capolavoro di dialettica che avrebbe reso fiero il padre: “Se non ci fosse Tajani bisognerebbe inventarlo, ma questo non vuol dire che non si possa sempre fare meglio e io stimolo Tajani a guardare avanti e a introdurre nella squadra del partito presenze nuove che non vuol dire per forza giovani. Ma bisogna guardare avanti, il mondo della politica ha delle mancanze di leadership se si vuole crescere bisogna far crescere i leader. Bisogna trovare dei politici che abbiano esperienza o inizino a fare esperienza e dicano la loro. Anche da un punto di vista di peso in termini di comunicazione”.
Tradotto: non è il momento di svuotare Forza Italia, ma è un progetto in stand by, di sepolcri imbiancati che comunicano male e non hanno alcun appeal per l’elettorato. Ma, appunto, i tempi non sono maturi per la discesa in campo di un nuovo leader, per la sostituzione di Tajani e per una vera rivoluzione. Il problema principale si chiama Giorgia Meloni. Troppo forte e troppo popolare sul piano del consenso. Con un ruolo chiaro sullo scacchiere internazionale, quello di quinta colonna trumpiana nell’Unione Europea. Con un peso importante in UE dato dai suoi rapporti con von der Leyen e dai numeri garantiti da ECR. Con le spalle coperte dagli ambienti che contano, almeno finché non si chiuderanno le partite del RearmUE e del PNRR.
Gianluca De Rosa sul Foglio riporta quella che è la lettura condivisa in FI delle parole di Pier Silvio Berlusconi su Tajani:
Anche chi è vicino a Tajani non crede nella discesa in campo. Questo il ragionamento: oggi nel centrodestra c'è un leader chiaro, la premier Giorgia Meloni, ma veramente Pier Silvio vorrebbe fare il comprimario e gestire le beghe di partito? Le dichiarazioni del secondogenito di Berlusconi, dunque, vengono interpretate da tutti in un altro modo: Pier Silvio chiede un rinnovamento del partito che non sia solo invitare Fedez al congresso dei giovani e, soprattutto, un superamento della gestione romanocentrica e incomprensibile a Cologno Monzese. Anche sulla questione ius scholae l'interpretazione sarebbe simile. Pier Silvio non lo avrebbe bocciato per una divergenza con Marina – "Io sono più conservatore di mia sorella" – ma l'indicazione del figlio del Cav. avrebbe tutt'altro sapore: non siamo stupidi, non basta accontentarci su proposte di retroguardia, vogliamo avere più voce in capitolo sulla gestione del partito. Insomma, Tajani, Gasparri & Co. simulerebbero battaglie sulla cittadinanza, sulle carceri e sui diritti civili per gestire intanto il partito senza troppe interferenze, trattando di fatto i figli del Cav. un po' come lui invitava a trattare l'elettore medio italiano: un bambino di dodici anni. Sarebbe di questo atteggiamento che sia Pier Silvio, sia Marina si sarebbero ormai stufati.
Anche un altro analista solitamente ben informato delle vicende forziste, Alessandro De Angelis su La Stampa, insiste sul punto: non è questo il momento, non ci sono le condizioni e Meloni è un ostacolo troppo grande.
Avanti così questa storia sta diventando come la "rivoluzione" nella celebre canzone di Giorgio Gaber, «oggi no, domani forse, dopodomani sicuramente». E, tanto per distinguere tra realtà e suggestione: quel «dopodomani», semmai sarà, è indissolubilmente legato a Giorgia Meloni. Perché il cognome Berlusconi – per ciò che è stato ed è – non potrà mai essere il secondo di qualcuno che sta al trenta per cento. Quantomeno deve iniziare la parabola discendente della premier. Anche il Cavaliere scese in campo quando si aprì uno spazio, mica a pentapartito imperante. E infatti, non a caso, Pier Silvio ha lodato Giorgia Meloni, fedele all'eterno imperativo che le aziende non possono mai, dicasi mai, entrare in rotta di collisione col governo. Tutto questo Tajani lo sa bene, per quanto infastidito sia dalle periodiche attenzioni. Dopo qualche telefonata si arriva alla conclusione che, anche a questo giro, si farà «concavo e convesso.
E i giornali della destra non fanno altro che sottolineare quanto il presidente di RTI abbia elogiato Giorgia Meloni, sia contento dell’operato del governo e, anzi, abbia rafforzato la maggioranza “stoppando” la discussione sullo ius scholae. In effetti, Berlusconi è stato più che generoso con la presidente del Consiglio, descrivendola come “una giovane donna venuta dal nulla che ha messo in piedi il governo più solido d’Europa, il migliore possibile”. Lo ha fatto in un colloquio che riporta Salvatore Merlo, sempre su Il Foglio, in cui però dice anche delle cose piuttosto interessanti, nell’ottica del ragionamento che stavamo facendo. C’è un primo riferimento temporale, vago solo all’apparenza: “Ho 56 anni, mio padre è entrato in politica a 58… Oggi non ho nessuna intenzione, ma guardando al futuro non escludo che a un certo momento possa dire ‘perché no’? Una sfida completamente nuova”. Poi continua: "È una brutta bestia, la politica. Io faccio finta che non esista. Ma se ci penso, parto…". E gli occhi quasi gli brillano d'entusia-smo. "L'idea mi crea passione". E di idee ne ha, "se entrassi in politica il mio programma sarebbe meno tasse, più salari, maggiore sicurezza e spinta allo sviluppo. E se mi ci mettessi davvero…". Ecco. "Se".
Sarà un caso, ma fra due anni ci sono le elezioni politiche (a meno di improbabili interruzioni anticipate della legislatura). E non elezioni qualunque, bensì quelle che definiranno il Parlamento che sceglierà il nuovo presidente della Repubblica. Un appuntamento che si annuncia come un vero bivio per il nostro Paese, in un contesto internazionale estremamente complesso. Non è un mistero che la destra proverà a giocarsi fino in fondo la partita per avere “uno dei loro” al Quirinale, sbilanciando definitivamente l’equilibrio politico-istituzionale del Paese. E non è un mistero che una simile prospettiva sia vista con grande preoccupazione non solo a sinistra, ma anche a Bruxelles. Potrebbe essere la spinta decisiva per la discesa in campo di Pier Silvio?
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Adriano