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Ricevi la rassegna speciale a cura di Adriano Biondi

Le comunicazioni al Parlamento della presidente del Consiglio Giorgia Meloni in vista del Consiglio Europeo del 23 e 24 ottobre sono state particolarmente interessanti. Non per il dibattito in Aula, oggettivamente soporifero e privo di spunti rilevanti (immaginiamo che l’opposizione si stia concentrando sulla manovra, dopo che il testo è stato bollinato e inviato alle Camere). Nemmeno per le dichiarazioni di voto, che comunque hanno evidenziato una certa distanza tra le diverse componenti della minoranza e i soliti accenni di mal di pancia in casa leghista per alcune scelte strategiche di Palazzo Chigi. E neanche per la disamina della linea italiana sui due grandi fronti ancora aperti (Gaza e Ucraina), considerando che le posizioni sono quelle note e nota è anche la ridottissima capacità di incidere del nostro governo.
Gli interventi di Giorgia Meloni hanno invece proposto dei passaggi decisamente interessanti, che chiariscono quella che sarà la linea su cui si muoverà l’Italia per i mesi (e forse anni) a venire. Linea di cui avevamo cominciato a intravedere qualche contorno nei mesi scorsi, ma che adesso, con il consolidarsi degli equilibri globali e con l’iniziativa saldamente nelle mani di Trump, può arrivare a una definizione complessiva. Ci riferiamo al chiaro posizionamento dell’Italia nel nuovo schema globale, in cui l’Unione Europea rischia di essere schiacciata tra blocchi più o meno contrapposti, retti da regimi autocratici e illiberali da una parte o condizionati in modo inesorabile dal peso di oligarchi e tecnocapitalisti. Uno scenario che non può essere semplificato in dualismi vecchi come progressisti/liberali versus conservatori, globalisti versus sovranisti, oppure in quello usato dalla stessa Giorgia Meloni, Occidente versus Sud del mondo.
Un contesto complesso, insomma, in cui la leader di Fratelli d’Italia aveva già accettato il ruolo di quinta colonna trumpiana nell’Unione Europea. Tuttavia, gli ultimi sviluppi sulla scena internazionale (il ritrovato attivismo del presidente statunitense, le mosse della Cina, le difficoltà dell’UE di venire a capo del rebus ucraino o di incidere nel conflitto a Gaza) l’hanno convinta a premere sull’acceleratore, a sciogliere le ultime riserve e provare a passare al livello successivo.
Come saprete, la costruzione europea rappresenta una grande sfida per la nuova amministrazione americana, sul piano economico, politico, finanche simbolico e ideologico. Le peculiarità del modello europeo non a caso sono state più volte oggetto di polemica da parte del vicepresidente Vance, nonché di critica feroce da parte dei media statunitensi allineati (dell’infosfera trumpiana in generale, con un ruolo sempre più centrale di podcaster, influencer, giornalisti-creator). Il paventato progetto MEGA, lungi dall’essere un semplice scimmiottamento del movimento MAGA, non era (è?) altro che il tentativo di dare consistenza alle pulsioni e alle spinte ideali dell’onda lunga trumpiana. E se non si è concretizzato, ancora, ciò non significa che non abbia avuto alcun effetto, considerando che le tesi centrali sono state raccolte da diversi movimenti e partiti europei, non casualmente di destra o di estrema destra.
In questo senso, è stata notevole la capacità di Giorgia Meloni di porsi come principale interlocutrice politica di Donald Trump in Europa. Un rapporto, basato su una evidente consonanza ideologica, da cui la nostra presidente del Consiglio ha tratto legittimità e centralità sulla scena internazionale, ma che prevedeva in cambio una certa dose di fedeltà e ossequio rispetto alle scelte operate da Washington (come abbiamo visto in tutte le grandi crisi degli ultimi mesi, dai dazi a Gaza).
Da tempo ci si interroga su cosa comporti la scelta di mettersi sotto l’ombrello americano. E le interpretazioni divergono nettamente. Giorgia Meloni continua a considerare l’Occidente come un corpo unico, una sorta di casa politica, economica, culturale, senza vedere alcuna alterata con l’Europa né rintracciare elementi problematici nella svolta trumpiana. Lo ha ribadito nella replica al Senato: “Io ho già utilizzato la mia autorevolezza, non tanto per difendere l'Europa, perché io credo che ci sia un errore di fondo a livello strategico in tutti quelli che cercano di creare una divisione tra Europa e Stati Uniti. Non è che vale se si dice che Trump si vuole distanziare dall'Europa e non vale quando si dice che bisogna difendere l'Europa contro Donald Trump. Io lavoro per l'Occidente, perché penso che l'Occidente sia forte insieme. E utilizzo la mia autorevolezza, lato americano e lato europeo, per cercare di rafforzare un legame senza il quale, mi dispiace, noi comunque avremo dei problemi”.
Ora, non c’è da dubitare sulla buona fede di Meloni. C’è invece, ed è la lettura che chi scrive condivide, da riflettere su quale sia la reale strategia della nuova amministrazione americana e quali siano gli interessi che essa persegue o difende. E se, in definitiva, per gli interessi americani sia preferibile un’Unione Europea forte, coesa e protagonista, o invece un coacervo di Stati nazionali vassalli di Washington, magari retti da singoli governi politicamente affini. Perché se così fosse, e ci sarebbe da esserne preoccupati, allora la funzione di Meloni dovrebbe essere quella di agente disgregante della forza della costruzione europea, in attesa che magari da Francia e Spagna (più che dalla Germania) arrivino altre buone notizie sul piano elettorale per la destra trumpiana.
Cosa deve preoccuparci del discorso di Meloni in Parlamento: il green deal
In questo senso, l’intervento di Giorgia Meloni è sorprendentemente rivelatore. Perché, ripeto tralasciando la politica estera in senso stretto (che ormai abbiamo appaltato a Trump, ne abbiamo già ampiamente discusso), affronta alcuni punti centrali dell’agenda per l’Europa caldeggiata dalla destra statunitense e recepiti dalla gran parte dei leader sovranisti e populisti europei.
Cominciamo dal green deal, su cui Meloni, pur avendo spesso manifestato obiezioni (spalleggiata soprattutto dalla Lega), non era mai stata così esplicita. Ecco, inutile ricordare che si tratta di politiche fortemente invise a Trump, che, più in generale sul fronte della lotta alla crisi climatica, ha cambiato radicalmente approccio rispetto al suo predecessore. Il prossimo Consiglio Europeo si occuperà, tra le altre cose, di due questioni legate al green deal: il rinnovamento industriale (con particolare riferimento al settore automobilistico) e le iniziative legate al problema alloggi. In entrambi i casi, come noto, la questione della decarbonizzazione è centrale.
Sul primo punto, al centro della discussione c’è il piano d’azione industriale per il settore automobilistico europeo che propone interventi per coniugare il rilancio della competitività dell’automotive con gli obiettivi concordati in materia di emissioni, varato dalla Commissione a marzo e già oggetto di contestazione da parte del governo italiano, da ultimo con una lettera inviata alla Ue congiuntamente con la Germania. Sulle case, invece, nella lettura del governo italiano pesano non solo le direttive su efficienza e prestazione energetica, ma anche il sistema ETS2, nonché le norme che prescrivono la decarbonizzazione del patrimonio edilizio, che si ritiene potrebbero spingere i piccoli proprietari di case a vendere a causa dei costi elevati per mettersi in regola.
Più in generale, al Consiglio europeo si affronterà la proposta di emendamento della Commissione europea alla legge europea per il clima, che fisserà un nuovo obiettivo intermedio per arrivare alla neutralità climatica nel 2050. Una proposta centrale per il futuro dell’Unione e non solo, che il governo intende bocciare.
Lo spiega Meloni in modo peculiare, perché parte da specifici interventi per togliere la maschera e indicare un deciso cambio di paradigma da parte italiana. Leggiamo questo passaggio del suo intervento:
“Noi vogliamo abbandonare quell'approccio ideologico che ha caratterizzato la stagione del Green Deal per abbracciare un pragmatismo serio e ben ancorato al principio di neutralità tecnologica. Per questo – lo dico chiaramente – l'Italia non potrà sostenere la proposta della Commissione di revisione della legge europea sul clima, così come formulata ora, a maggior ragione se non sarà accompagnata da un vero e sostanziale cambio di approccio. E per noi questo cambio di approccio deve sostanziarsi in tre ambiti principali, in cui le rinnovabili hanno un ruolo nello sviluppo, ma devono essere integrate in un sistema equilibrato e tecnologicamente attrezzato per contenere al massimo le emissioni. […] Allo stesso tempo, chiediamo di prevedere una robusta clausola di revisione degli obiettivi climatici sanciti dalla legge europea sul clima. Tra cinque anni sarà fondamentale fare il punto su dove siamo, su cosa avrà funzionato e cosa no a livello UE e nelle differenti Nazioni europee e se sarà necessario adottare le misure correttive conseguenti. Dobbiamo insomma porci degli obiettivi realistici, verificabili e compatibili con la sopravvivenza dei nostri settori produttivi e industriali”.
Attenzione perché qui siamo in presenza di un classico della comunicazione della destra mondiale, che Meloni adatta al contesto e alle esigenze. Basta leggere tra le righe del suo intervento (che vi linko qui). Dietro l’utilizzo di formule a effetto (“follie green”, “approccio ideologico alla crisi climatica”) e il ricorso al sempre utile concetto di “buonsenso” (nello specifico, il sostegno alle imprese e lo spettro della concorrenza straniera), ci sono i veri obiettivi: lo stravolgimento del percorso verso la neutralità climatica (occhio alla richiesta di una “clausola di revisione”), la rottura del fronte allarmista rispetto alla crisi climatica, il sostegno ai gruppi economici che sarebbero chiamati a massicci investimenti, nel settore dell’automotive e non solo. Non si tratta di applicare dei correttivi, operazione pienamente legittima, bensì di picconare poco alla volta una delle costruzioni simbolo dell’Unione a guida popolare-socialista. È un obiettivo politico, che Meloni rivendica implicitamente in un passaggio del suo discorso:
“Penso che noi non possiamo rimanere inerti se si dovesse continuare su una strada che ha già dimostrato di essere fallimentare, di avere dei limiti e di avere dei problemi. È quello che ho detto questa mattina, per esempio in riferimento alle materie del Green Deal. Ed è per questo che l'Italia, dal mio punto di vista, deve essere chiara nel dire quello che non funziona nelle nuove proposte e tentare di correggere la rotta. Colleghi, questo non significa essere contro l'Europa, ma significa cercare di salvare un'Europa che delle volte, per diktat ideologici insensati, ha purtroppo devastato la sua forza e la sua competitività. (Applausi). E, se è così, va detto, se si vuole dare una mano. Non è dicendo "sì" che si dà una mano: è dicendo "no" quando va detto di no che si dà una mano a essere più forti”.
La burocrazia europea e la semplificazione
C’è una caratteristica dell’Unione Europea che è da sempre particolarmente invisa ai gruppi di potere e ai potentati economici che sostengono Donald Trump. Su scala ridotta, è un aspetto contro cui da sempre si scagliano quei corpi intermedi e gruppi di interesse che hanno come riferimento politico i partiti della destra italiana. Sul piano comunicativo, è una specie di feticcio, agitato in chiave polemica dalla quasi totalità dei partiti politici e movimenti populisti e qualunquisti negli ultimi decenni. È la burocrazia, la tensione alla regolamentazione. Non è questa la sede per una discussione nel dettaglio (la materia è oltremodo vasta e complessa), ci limiteremo a dire che ci sono dei settori in cui la differenza con gli Stati Uniti è particolarmente evidente e su cui si sono registrate insistenti pressioni soprattutto dagli ambienti che hanno sostenuto la nuova ascesa di Donald Trump.
Meno regole, più affari. Meno burocrazia, più innovazione. Meno controlli, più libertà. Meno vincoli, più benessere. Meno interventi statali, più fiducia agli imprenditori. Meno regolamenti e direttive, più competitività.
Concetti cardine dell’approccio dell’ultradestra che si sposano perfettamente con gli interessi dei tecnocapitalisti e che possono essere usati in modo particolarmente efficace nella comunicazione pubblica. Proprio per questo, si stanno imponendo con una facilità disarmante e trovando grande condivisione tra i leader UE. Giorgia Meloni lo spiega in modo chiaro:
Insieme al cancelliere Merz e a circa altri quindici leader europei, ho indirizzato una lettera alla presidente von der Leyen per accelerare ulteriormente la semplificazione sulla base di tre principi: in primo luogo, la revisione dell'intero acquis regolamentare, cioè dell'insieme delle leggi, dei regolamenti, delle sentenze e delle consuetudini che compongono il diritto dell'Unione, per individuare tutto ciò che è obsoleto e non funzionale; in secondo luogo, la cancellazione, tramite i pacchetti omnibus, della regolamentazione non necessaria; in terzo luogo, il contenimento all'essenziale delle nuove proposte legislative, limitandosi alle sole materie delegate dove maggiore è il valore aggiunto di un intervento europeo; in altre parole, piena e semplice applicazione dei principi di attribuzione, di sussidiarietà e di proporzionalità che sono sanciti nei Trattati. L'Italia ha contribuito con forza al cambio di paradigma europeo che sta finalmente riportando al centro le tematiche della semplificazione e della competitività, terreni su cui per lungo tempo l'UE ha seguito traiettorie sbagliate, che l'hanno fortemente indebolita nei confronti dei suoi competitor globali.
Ha possibilità di avere successo un piano così ambizioso di revisione complessiva di leggi, trattati, regolamenti? Ma nemmeno per sogno. Ha un significato politico profondo? Certo, perché si tratta di un aspetto cardine della costruzione europea, che chiama in causa la “gerarchia” del diritto e le logiche di integrazione tra gli Stati europei, basate essenzialmente sulla cessione di sovranità.
Del resto, coerentemente con la sua storia, la sua piattaforma politica e i desiderata del suo nuovo mentore americano, Meloni considera il rafforzamento degli Stati nazionali una condizione essenziale per ridisegnare il progetto europeo, per cambiare radicalmente volto a un’Europa che ha “fatto gravi errori” e che è sempre “più distante” dai bisogni dei cittadini. Anche nel corso del suo intervento non perde occasione per ribadirlo, ad esempio parlando del tema della difesa, che ritiene essere una prerogativa assoluta dei singoli Stati nazionali.
C’è infine un ultimo aspetto del trumpismo all’italiana che ci ha particolarmente colpito in questo suo discorso: l’insofferenza, ormai neanche tanto nascosta, per le costruzioni sovranazionali e per il diritto internazionale. Ne abbiamo visto un assaggio in questi ultimi mesi, con il tentativo di delegittimare organismi come la Corte Penale Internazionale o Agenzie delle Nazioni Unite come l’UNHCR, portato avanti anche con l’aiuto dei media di area, sia in Italia che negli USA. Ora arriva anche la proposta concreta, su un campo di particolare interesse per la propaganda della destra: riscrivere le convenzioni internazionali e i trattati che regolano l’immigrazione, ridefinire il quadro giuridico in tema di rimpatri, picconare i principi del diritto di asilo.
Insomma, è questione di tempo ma un passo alla volta Giorgia Meloni intende perseguire i suoi obiettivi. Non indossa la cravatta rossa di Trump come il suo vicepresidente, ma ne ha sposato pienamente l’agenda e ne copia i metodi di azione. Mica poco. Mica un problema da poco.
– Adriano Biondi