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Anche oggi mi tocca cominciare con una premessa: odio i pezzi di “bilancio” e ancor di più quelli in cui si celebra una “ricorrenza”. Contenuti che, nella gran parte dei casi, sono il risultato di forzature e compromessi, di sintesi inevitabili e di complessità solo accennate, che poi si finisce con il leggere più per abitudine e pressione che per reale necessità. Nel caso dei “mille giorni del governo Meloni” abbiamo sia la ricorrenza che il bilancio, con il plus della polarizzazione politica. La tempesta perfetta, diciamo.

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Solitamente, nella valutazione dell’operato di un governo o di un leader politico si tende a partire dai sondaggi. E non è una scelta sbagliata, soprattutto se si tiene conto del fatto che da anni la politica si è trasformata in ostinata e continua ricerca del consenso. Su questo piano, Giorgia Meloni è semplicemente ingiocabile. Caso rarissimo nella storia italiana, dopo più di due anni e mezzo di governo Fratelli d’Italia si mantiene intorno al 30% dei consensi e traina la coalizione di centrodestra ben oltre il 45%. La presidente del Consiglio ha il gradimento più alto fra i politici di maggioranza e risulta apprezzata anche da parte dell’elettorato teoricamente avversario. Il suo governo si avvia a superare quello di Matteo Renzi per longevità e non ci sono segnali di una fine anticipata della legislatura.

Una luna di miele lunghissima, dunque, che ha ragioni diverse su cui in molti si stanno interrogando. Personalmente resto convinto che si tratti di un insieme di fattori (ne ho parlato a lungo qui, qui e qui), tenuti insieme dalle capacità politiche e comunicative di Giorgia Meloni. I punti cardine del successo della presidente del Consiglio restano quattro: controllo della narrazione, continuità e stabilità dell’esecutivo, frammentarietà dell’opposizione e complessità dello scenario internazionale. Più o meno tutto può rientrare in questo schema, in cui lei ha mostrato di sapersi muovere con grande efficacia, sfruttando anche l’accondiscendenza di larghissima parte dei media (almeno fino a un certo punto) e l’assenza di questioni di elementi di rottura per l’opinione pubblica (almeno fino alla questione Gaza, su cui avrete tutti notato il suo tentativo di riposizionamento di queste settimane).

Ci sono poi altri numeri che teoricamente conterebbero. Quelli della finanza pubblica, dell’economia, dell’occupazione e via discorrendo. Qui la questione si fa decisamente più complessa e difficilmente sintetizzabile in una valutazione secca. E ci sarebbero i confronti con le promesse elettorali, con le previsioni messe nero su bianco nei provvedimenti di governo, con le dichiarazioni in tv.

C’è infine, tutto ciò che non è quantificabile, bensì interpretabile. Ed è su questo terreno che i giornali hanno scelto di giocarsi la partita, con le dinamiche che ormai abbiamo imparato a conoscere.

Comincerei la nostra rassegna da Il Foglio, giornale che sta tenendo un approccio ambivalente in questi mesi: semplificando, bastonate ai ministri e lodi alla presidente.

Il quotidiano diretto da Claudio Cerasa fa un’ampia copertura dell’anniversario meloniano, con una serie di pezzi, affidati non solo a giornalisti ma anche a politici, sintetizzati così: “L’austerità presentata come stabilità, geniale. La difesa dell’Ucraina e l’appoggio a Israele, perfetti. Ma ci sono anche le culture war alle vongole e le riforme lasciate su fogli mal scritti. E l’immobilismo su industria ed energia”. Molto interessanti, a parere di chi scrive, i contributi più tecnici di Tria e De Romanis. Scrive l’ex ministro del Conte I:

Il governo aveva ereditato una situazione di finanza pubblica disastrata dal superbonus e che solo l’arrivo di una personalità come Draghi aveva impedito di leggerne le conseguenze drammatiche immediate nei mercati finanziari. Ma è stato il governo Meloni a decidere, e guidare senza scossoni significativi, l’uscita da questa norma e avviare una politica di bilancio prudente e seria tale da riconquistare la fiducia dei mercati finanziari sul debito italiano.  Lo ha fatto in un momento in cui l’inflazione tagliava i redditi fissi e in cui il vantaggio iniziale portato dalla stessa inflazione sui saldi del bilancio pubblico si esauriva e iniziava il contraccolpo dei costi in salita sulla spesa pubblica. A fronte di un’economia europea frenata dalla politica restrittiva della Bce, che con ritardo si è impegnata nella lotta all’inflazione, ha maneggiato con attenzione la leva fiscale per utilizzare le poche risorse nella direzione del sostegno ai redditi più bassi. L’inflazione è scesa anche perché non si sono scatenati conflitti distributivi. Il risultato è che oggi l’economia italiana sta meglio di gran parte di quella dei maggiori paesi europei.

Meno entusiasta l’economista De Romanis, che spiega il “trucco” comunicativo dell’esecutivo:

La stessa austerità dei governi precedenti è stata presentata sotto una nuova veste, quella della stabilità. Geniale. E, così, ciò che non si poteva mostrare allora, oggi diventa un motivo di orgoglio. “Il paese è stabile”, “il governo è stabile”, queste sono le frasi che più spesso sentiamo pronunciare dagli esponenti della maggioranza. Tutto bene? Non proprio. La stabilità è una condizione necessaria ma non sufficiente per crescere. Chi è stabile, oggi, non sta immobile: torna indietro. In un contesto di forte incertezza e di complessità crescente, stare fermi non è una strategia vincente. Conservare (questo – del resto – fanno i partiti conservatori come quello guidato da Giorgia Meloni) può funzionare in politica. Ma non in economia. Per aumentare la prosperità e il benessere dei cittadini serve agire con interventi strutturali. In altre parole, servono quelle riforme che da anni rimandiamo. La più importante è senza dubbio la spending review.

Una lettura, quella dei conti in ordine e delle difficoltà a sostenere la crescita, sostanzialmente condivisa anche dal maggior quotidiano economico italiano. Il Sole 24 Ore, infatti, affida una lunga scheda a Manuela Perrone e Barbara Fiammeri, in cui è interessante, in particolare, il passaggio sulla crescita:

A più riprese la Premier ha rivendicato i primati sul fronte occupazionale e in effetti gli ultimi dati testimoniano la creazione di più di un milione di posti di lavoro in due anni e mezzo di Governo che ha portato al massimo storico di occupati: oltre 24,3 milioni. Eppure, nonostante questi numeri, la domanda interna resta debole e la produzione industriale continua la sua inesorabile discesa (-1,2% da inizio anno a maggio, con il tonfo dell'automotive). Produzione già provata dal caro energia – con le accise che restano le più alte d'Europa e il disaccoppiamento promesso in campagna elettorale mai realizzato – e messa ancora più a rischio dai dazi annunciati dagli Usa.

Questo significa che non basta l'aumento dei contratti di lavoro ad assicurare la crescita (non a caso dimezzata nelle stime del Governo per il 2025 a quota +0,6%), tanto più che si tratta di occupazione in parte significativa legata ai servizi, con salari che, nonostante alcuni segnali di recupero nell'ultimo anno, restano ampiamente sotto i livelli dei principali Paesi Ocse. Lo conferma indirettamente l'aumento costante dei giovani qualificati che espatriano. Un'emorragia che il Governo finora non ha affrontato.

La lettura dei dati economici guida anche il bilancio che fa Mario Ajello su Il Mattino. Un’analisi estremamente generosa con la presidente del Consiglio, esaltata anche per la sua capacità di costruire relazioni nel senso della responsabilità e non dell’ideologia, in Italia e in Europa. Un passaggio merita di essere letto:

Meloni non è stata in questi 1000 giorni il funambolo ma la giocatrice che triangola, costruisce senso e consenso non solo nel campo di casa ma anche in trasferta. E proprio questa attitudine le ha consentito di creare con il presidente Mattarella una sintonia istituzionale che è parte essenziale della stabilità di cui dicevamo. […] La riaffermazione della centralità italiana in Europa è un altro di quei fatti che sono fatti. E il rapporto con Merz, oltre che con Ursula, più che una questione di famiglie politiche che si avvicinano (ovvero Giorgia verso il popolarismo di cui la presidente Ue e il cancelliere tedesco sono grandi esponenti), è il frutto di una comunanza di vedute e di strategie riguardo all'Europa e al rapporto dell'Europa con gli Stati Uniti. Che non può, nell'interesse del nostro continente, essere di rottura ma di continua interlocuzione, sia pure faticosa

Ora, in tutta onestà non ci sentiamo di supportare la tesi dell’aumento della centralità italiana in Europa con Giorgia Meloni. Che ha chiaramente schiacciato la linea italiana su quella della nuova amministrazione statunitense, per poi doversi esibire in una serie di capriole e giravolte a seconda degli umori di Trump e Vance (tutti parlano dei dazi, io segnalo anche l’ormai famoso discorso di Monaco del vicepresidente USA). È la quinta colonna trumpiana in Europa, esclusa dalle "vere" negoziazioni e con una linea piuttosto ambigua su dazi e politiche green, le grandi questioni del nostro tempo.

Per trovare qualche perplessità rispetto al lavoro della presidente, comunque, dobbiamo cambiare argomento. E passare alle scelte comunicative, al rapporto con i giornalisti e alla grande allergia alle domande di cui soffre praticamente dal giorno zero. Ne scrive Panarari su La Stampa, in modo piuttosto efficace:

Ricordiamo gli "Appunti di Giorgia" – il suo diario post-populista e il suo taccuino di lavoro squadernati davanti all'opinione pubblica – nel video in cui accompagnava gli spettatori fin dentro il Consiglio dei ministri o nelle dirette social: altrettante declinazioni del suo modello di comunicazione istantanea e disintermediata. Senza disdegnare l'occupazione manu militari del servizio pubblico convertito in TeleMeloni. Con un'azione sicuramente apprezzata dall'elettorato di destra che, nei travasi di voti, l'ha portata all'egemonia di quella parte politica. E a cui piace molto il suo direttismo comunicativo, dal linguaggio (in apparenza) popolare – rafforzato dalla calata romanesca – agli slogan («È finita la pacchia»), fino a certi modi spicci e alle "faccette" acchiappaconsensi e non precisamente istituzionali. Con l'occhio spesso rivolto, sul piano più strettamente politico-ideologico, a portare a compimento il suo progetto di "dediabolizzazione", ampiamente vittorioso sul fronte interno, ma non pienamente su quello internazionale. […] Fino al silenzio stampa e alla fuga sempre più frequente dalle domande dei giornalisti, che per una (ex) Grande comunicatrice non è il massimo, a differenza, per esempio, dell'assai loquace “amico Trump” […] E l'afasia pare avere colto la presidente del Consiglio anche rispetto alle sorti magnifiche e progressive che la volevano irrinunciabile "pontiere" fra Usa ed Europa. Madi fronte ai dazi non c'è equilibrismo (politico e comunicativo) che tenga.

E sui giornali della destra? Come hanno celebrato questo anniversario tondo, come si suol dire? Tra "sfide vinte" e "traguardi raggiunti", qualcosa di interessante c'è, in effetti.

Orsina sul Giornale è molto diretto e fotografa con precisione un aspetto spesso poco considerato: la distanza fra la promessa, agognata e attesa rivoluzione e il bilancio tutto sommato “normale” dell’operato di questi anni. Parlando di gestione prudente come di un limite:

Ma, dicevo all'inizio, anche la prudenza può essere un limite. A questo punto dovrebbe essere evidente perché: perché trattiene dall'osare, dal tentare un passo un po' più lungo, dal provare a modificare qualche equilibrio strutturale. Per trent'anni ci è stato detto che l'Italia aveva bisogno di riforme profonde e dolorose: per rimediare al calo demografico, per la competitività, per la crescita. Quante volte ci è stato ripetuto che eravamo all'ultima spiaggia, che bisognava fare presto? Per trent'anni queste riforme non sono state fatte, o tutt'al più ne è stato introdotto qualche pezzetto insufficiente a far sì che il Paese tornasse a crescere, competere e far figli. Malgrado abbiano governato la destra, la sinistra, i populisti e i tecnici. Oggi di queste riforme profonde e dolorose quasi non si parla nemmeno più. Forse perché l'opinione pubblica, con qualche ragione, si è stancata dei discorsi. Ma l'Italia continua a crescere poco, nella demografia e nell'economia. E il governo Meloni rischia allora di essere ricordato nei libri di storia come un esecutivo certo responsabile e pragmatico, ma che nell'ottima compagnia di tutti i suoi predecessori – ha finito per amministrare il declino del Paese.

Ecco, diciamo che (per fortuna, a parere di chi scrive) è molto ampia la distanza tra ciò che aveva promesso, la strada che aveva disegnato per la destra identitaria e conservatrice e l'approccio prudente e compassato che ha avuto su molte questioni. La rivoluzione non c'è stata e la presidente ha sostituito le "praterie per cuori puri e gambe audaci" narrate ai propri elettori con delle scorciatoie, praticamente su tutte le grandi questioni affrontate. Eccezion fatta per quelle ad alto impatto sociale. Terreno su cui, da Caivano al decreto sicurezza, Meloni ha fatto sfracelli. E non è cosa da poco, malgrado sui giornali odierni praticamente non ce ne sia traccia. Come se la criminalizzazione del dissenso, la colpevolizzazione delle marginalità sociali, l'imbarbarimento del dibattito pubblico e la lotta senza quartiere a un'idea di società aperta e inclusiva non avessero un impatto devastante sul Paese.

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