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“Sei tu, Salvatore?”, lo scambio di persona costato la vita a Giulio Giaccio, sciolto nell’acido dalla camorra

Giulio Giaccio, 26 anni, è stato ucciso dal clan Polverino per errore: i killer credevano che fosse tale “Salvatore”, che aveva una relazione con la sorella di un affiliato.
A cura di Nico Falco
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Giulio Giaccio, la vittima
Giulio Giaccio, la vittima

Piazzetta Romano, Marano di Napoli, 30 luglio 2000. È una domenica, sono le 22.30 circa. Giulio Giaccio è con un amico quando davanti a lui si ferma una Fiat Uno bordeaux. Scendono alcune persone, si qualificano come poliziotti e gli chiedono più volte: "Sei tu, Salvatore?". Lui risponde di no, che si chiama Giulio, ma viene caricato a forza in macchina. Sono gli ultimi minuti della vita dell'operaio 26enne, la cui tragica fine verrà fuori soltanto dalle dichiarazioni di quattro collaboratori di giustizia. La ricostruzione degli inquirenti, contenuta nell'ordinanza emessa nei confronti di 3 affiliati ai Polverino ritenuti coinvolti nell'omicidio, parla di un delitto orribile: sarebbe stato ammazzato e il suo corpo sarebbe stato disciolto nell'acido.

Lo scambio di persona

Nelle ore successive al sequestro i familiari della vittima avevano contattato tutti i comandi di zona e nessuno sapeva nulla del fermo del 26enne. Il giorno successivo l'amico aveva sporto denuncia al commissariato San Paolo, specificando che, prima di caricarlo nella "Tipino", più volte avevano chiesto a Giaccio come si chiamasse.

Ma chi era tale Salvatore, che i finti poliziotti stavano cercando? Si trattava di un altro giovane, che non sarà mai identificato, che aveva avuto una relazione sentimentale con la sorella di Salvatore Cammarota, un affiliato al clan Polverino. Quella sera il commando di morte cercava lui, per punirlo, credeva di averlo trovato ma si era invece imbattuto in Giaccio.

Per la morte dell'operaio sono finiti sotto processo Carlo Nappi e Cammarota, reo confessi, e Roberto Perrone, collaboratore di giustizia, in attesa della sentenza di primo grado; i primi due sarebbero stati i mandanti, mentre il terzo sarebbe stato nell'automobile in cui venne commesso l'omicidio. Oggi sono finite agli arresti altre tre persone, anche loro riconducibili al clan Polverino ed accusati di essere i killer del giovane: Raffaele D'Alterio, Salvatore Simioli e Salvatore De Cristoforo.

Le indagini: la guerra tra clan e le rapine

Nel corso delle indagini la Squadra Mobile aveva appreso di un episodio analogo, avvenuto tre mesi prima: sei uomini, che viaggiavano su una Alfa 156 grigia e su una Punto blu, avevano prelevato con la forza un ragazzo nei pressi del bosco di Capodimonte e lo avevano portato in due attività commerciali, riconducibili al clan Polverino, che avevano subito una rapina; l'uomo era stato sottoposto ad una sorta di "riconoscimento" e poi liberato, scagionato perché il responsabile aveva un tatuaggio sul braccio. I due titolari, ascoltati dagli investigatori, avevano confermato di avere subìto una rapina ma avevano negato di avere coinvolto la criminalità organizzata.

Dal territorio era emersa la pista delle rapine: secondo elementi raccolti all'epoca dagli investigatori, Giaccio era indicato, insieme ad un suo amico, responsabile di diversi raid nei negozi della zona. Si trattava, però, di una voce priva di fondamento: da approfondimenti e verifiche non era emerso nessun riscontro. Successivamente altri testimoni avevano raccontato di avere visto la Fiat Uno color amaranto: quindici giorni prima del sequestro si aggirava in via Romano e il giorno precedente, insieme ad altre due automobili, era uscita a retromarcia in velocità dal cortile dell'abitazione di Giaccio.

Gli elementi acquisiti avevano portato a due ipotesi. La prima era che il 26enne fosse stato ucciso per errore nella guerra di camorra che in quegli anni si stava combattendo a Pianura: lo storico clan Lago contro i Marfella, in un conflitto che fece registrare diverse vittime innocenti, come Luigi Sequino e Paolo Castaldi, ammazzati il 10 agosto 2000 perché scambiati per guardaspalle del genero del capoclan Pietro Lago.

La seconda ipotesi era che Giaccio fosse stato sequestrato dai Polverino, come in effetti accadde, ma per un motivo diverso: i camorristi lo avrebbero ritenuto responsabile di rapine ai danni di commercianti da loro "protetti" e per questo rapito, torturato e ucciso nei pressi della proprietà di Salvatore Cammarota.

La svolta con le dichiarazioni del pentito

La svolta è arrivata tredici anni dopo, con la scelta di collaborare di Roberto Perrone, storico capozona dei Polverino per Quarto, che nel ricostruire numerosi fatti di sangue ha parlato anche della morte di un giovane di 26 anni estraneo a qualsiasi dinamica criminale. E ha spiegato: "All'epoca, era prassi del clan disciogliere le vittime nell'acido e poi disperderne i resti".

Il metodo dell'acido per far sparire i corpi è probabilmente eredità delle tecniche usate dalla mafia e c'è un filo che unisce il clan di Marano con l'organizzazione siciliana: i Polverino avevano a quel tempo preso infatti il posto dei Nuvoletta (i vertici dei due clan sono strettamente imparentati), i cui legami con Cosa Nostra sono ben documentati da numerose inchieste: il capo dei capi, Totò Riina, aveva passato nella tenuta di Marano dei Nuvoletta diversi periodi della sua lunga latitanza.

Ulteriori dichiarazioni sulla vicenda sono arrivate da Giuseppe Simioli, anche lui in passato ai vertici dei Polverino e di recente diventato collaboratore di giustizia. La fine di Giaccio, scrive il gip nell'ordinanza, sarebbe rimasta senza una spiegazione se non fossero "sopraggiunte le dichiarazioni di ben quattro collaboratori di giustizia".

L'omicidio di Giulio Giaccio

Perrone, nelle sue dichiarazioni, ha ripercorso quell'omicidio dalle fasi preparatorie. Quel giorno, ha spiegato, Cammarota gli aveva detto di appena individuato un ragazzo che doveva essere "punito": un affiliato gli aveva detto che si trovava davanti alla chiesa di via Romani con un Transalp rosso, insieme ad un amico con una Vespa bianca. Del gruppo, secondo il collaboratore, facevano parte anche Carlo Nappi (che li accompagnò per poi andarsene), Salvatore Simioli, Salvatore D'Alterio e Luigi Cristofaro.

I quattro recuperarono una Fiat Uno di colore rosso, già usata dal clan per altri fatti di sangue, dentro cui erano state lasciate delle pettorine della Polizia di Stato o dei Carabinieri. Ha messo a verbale Perrone:

Io e il Simioli scendemmo dalla vettura e ci avvicinammo dal giovane a bordo della Transalp chiedendo se fosse Salvatore.

Questi rispose di chiamarsi Giulio chiamandomi "comandante" e scambiandomi evidentemente per il capo pattuglia e io ribattei che doveva seguirci in caserma per un semplice controllo.

Il giovane fu caricato in auto e fatto accomodare al centro tra D'Alterio Raffaele e Simioli Salvatore e ci allontanammo dalla zona.

Durante il tragitto Giaccio avrebbe più volte ribadito di non essere la persona che cercavano, di essere una brava persona che lavorava come muratore, ma sarebbe stato rassicurato proprio da Perrone: quello era un semplice controllo, nulla di cui preoccuparsi.

Giunti alla curva del parco Oasi sentii D'Alterio rivolgersi al giovane dicendo testualmente: "Ora devi stare zitto". Contemporaneamente il D'Alterio abbassò la testa del giovane fra le ginocchia e gli esplose un colpo d'arma da fuoco alla testa.

Sorpreso dall'improvvisa esplosione urlai a D'Alterio cosa avesse fatto e questi, senza scomporsi, rispose che me lo avrebbe spiegato successivamente Salvatore Cammarota.

Il commando sarebbe quindi andato da Cammarota, che avrebbe tirato un calcio al corpo ormai esanime di Giaccio, credendo ancora che fosse l'uomo che aveva una relazione con la sorella.

Il corpo di Giaccio distrutto nell'acido

Il gruppo sarebbe quindi andato in una zona chiamava "il cavone", dove avrebbero trovato già pronto un bidone, del tipo usato per bollire i pomodori, con un bruciatore. Il corpo sarebbe stato trascinato con l'aiuto di altre persone e a quel punto Perrone si sarebbe allontanato, lasciando a terra il gilet sporco di sangue e dando indicazioni perché venisse bruciato.

Il giorno successivo, ha raccontato ancora Perrone, aveva saputo che era stata uccisa la persona sbagliata e che non se ne doveva parlare nemmeno all'interno del clan: l'omicidio era stato commesso all'insaputa dei vertici dei Polverino e aveva mandato su tutte le furie il superboss, Antonio Polverino, detto "Zio Totonno", in quanto la vittima non era coinvolta nella criminalità ma, anzi, apparteneva a "una brava famiglia di Marano".

Successivamente Nappi e un altro affiliato avrebbero detto a Perrone che per il ragazzo "era tutto a posto", cioè che il corpo era stato distrutto:

ossia che era stato disciolto nell'acido ed i resti erano stati gettati nella "senga", ossia una sorta di fenditura del terreno molto profonda che si trova proprio nella zona del cavone.

Alla mia domanda in ordine al mio gilet, mi dissero che l'auto con il gilet sporco di sangue erano stati bruciati.

Del corpo di Giulio Giaccio, ha raccontato il collaboratore Biagio Di Lanno, non rimase nulla:

Il Simioli mi raccontò un particolare agghiacciante e cioè che l'acido non aveva sciolto la dentatura del cadavere per cui questa fu distrutta con un martello.

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