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L'omicidio di Giovanbattista Cutolo a Napoli

Il senso delle parole di don Mimmo Battaglia ai funerali di Giovanbattista Cutolo

Le parole del vescovo di Napoli ai funerali del musicista ucciso sono un chiaro atto d’accusa alla politica ma che esorta una parte di città egoista e ignava a impegnarsi.
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Il grande guaio di Napoli è che una buona percentuale dei suoi residenti, siano essi semplici cittadini o caricati di responsabilità istituzionali è sociali pensa d'essere più furba degli altri. Furba nel senso deteriore: capace di passare fra una goccia di pioggia e l'altra senza bagnarsi, capace di trarre vantaggio da situazioni negative per la collettività, capace di lavarsene nel mani più veloce di un Pilato, di tradire più di un Giuda una città che dice d'amare, ma solo se si tinge d'azzurro e tricolore.

La premessa è importante per comprendere le parole di Domenico Battaglia, "don Mimmo", arcivescovo metropolita di Napoli ai funerali del musicista Giovanbattista Cutolo, ucciso da un ragazzo diciassettenne dei Quartieri Spagnoli per futili motivi. Le parole del vescovo di Napoli ai funerali del musicista ucciso sono state un chiaro atto d'accusa alla politica ma al tempo stesso lo strumento per esortare una parte di città egoista e ignava a impegnarsi.

Nelle due chiese del Novecento, quella marxista e quella cattolica, il primo atto d'analisi è il riconoscimento delle proprie mancanze. In un caso si chiama «autocritica» e si faceva nelle segreterie fumose e nei convegni, nell'altro si chiama «atto di dolore».

Il pastore di Napoli cosa può fare da quell'altare se non richiamare il suo gregge? Bisogna stare molto attenti a non trattare le parole di don Mimmo con la superficialità delle parole di un influencer dei social.

Egli si rivolge alla città tutta ma le sue parole sono pesi d'ottone in varia foggia e misura da collocare sulla bilancia delle responsabilità. Davanti a don Battaglia c'è il Governo, c'è la Regione Campania, c'è il Sindaco di Napoli. Egli inizia a dare la colpa alla sua Chiesa, anzi a se stesso: «potevo fare di più, potevo urlare di più».

È forse anche l'annuncio di un cambio di passo dell'arcivescovo nominato da Papa Francesco nel 2020 ed entrato a febbraio del 2021 a largo Donnaregina. A quasi tre anni da quell'inizio farà sentire più forte la sua voce. E lo dice molto chiaramente se si ha voglia di capirlo e non solo di sentirlo parlare:

Giovanbattista, figlio e fratello mio, accetta la mia richiesta di perdono! Perché sono colpevole anche io! Fin dal primo giorno dell’arrivo in questa città mi sono reso conto dell’emergenza educativa e sociale che la abitava e ho cercato di adoperarmi con tutto me stesso, di appellarmi alle istituzioni locali e nazionali, alla buona volontà di tutti ma evidentemente non è bastato, forse avrei dovuto non solo appellarmi ma gridare fino a quando le promesse non si fossero trasformate in progetti e le parole e i proclami in azioni concrete! Perdonami se non ho gridato abbastanza, perdona me e la mia Chiesa se quello che facciamo, pur essendo tanto, è ancora poco, troppo poco.

Definendo "figli nostri" i ragazzi di Napoli – non solo Giovanbattista ma anche il suo assassino – don Mimmo allarga il campo non solo alle istituzioni ma anche ai tanti ignavi che parlano ma poco fanno, poco si spendono e invece potrebbero farlo. A Napoli ce ne sono, tantissimi, in quella società civile che vive di "boom" (ora è quello turistico).

 Accetta le scuse – forse ancora troppo poche – di coloro che si girano ogni giorno dall’altra parte, che pur occupando incarichi di responsabilità hanno tardato e tardano a mettere in campo le azioni necessarie per una città più sicura, in cui tanti giovani, troppi giovani perdono la vita per mano di loro coetanei!

Cosa dovrebbe fare un prete? Il suo strumento è la Parola, i suoi poteri sono grandi, ma in altre dimensioni, per chi ci crede. Chi si sente offeso dalle parole del vescovo camminatore ha forse dei rimorsi. Perché è chiaro che don Battaglia si rivolge con un profondo atto d'accusa alla politica:

Perdonaci tutti Giogiò, perché quella mano l’abbiamo armata anche noi, con i nostri ritardi, con le promesse non mantenute, con i proclami, i post, i comunicati a cui non sono seguiti azioni, con la nostra incapacità di comprendere i problemi endemici di questa città che abitata anche da adolescenti – poco più che bambini – camminano armati, come in una città in guerra.

Perdona i nostri individualismi, i nostri protagonismi sterili, le nostre visioni parziali, la nostra incapacità di fare rete, di superare l’idolatria dell’io per creare il “noi”, opponendo un sistema di vita al sistema di morte di cui anche tu sei stato vittima innocente!

Infine fa come gli ebrei nei Deuteronomio: convoca la vita anche nel contesto di morte. «La vita e la morte pongo davanti a te, la benedizione e la maledizione. Tu scegli la vita» (Dt 30,19). E stavolta sì, si rivolge alla folla di piazza del Gesù e non solo alle autorità. Spazza via il «fujtevenne» eduardiano a Napoli usato purtroppo spesso a sproposito, fuori contesto:

Per questo se qualcuno un tempo ha detto “fuggite”, e qualcun altro oggi dice “scappate”, io vi dico: restate! Restate! E operate una rivoluzione di giustizia e di onestà! Restate e seminate tra le pietre aride dell’egoismo e della malavita il seme della solidarietà, il fiore della fraternità, la quercia della giustizia!

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Giornalista professionista, capo cronaca Napoli a Fanpage.it. Insegna Etica e deontologia del giornalismo alla LUMSA. È autore del libro "Se potessi, ti regalerei Napoli" (Rizzoli). Ha una newsletter dal titolo "Saluti da Napoli". Ha vinto il Premio giornalistico Giancarlo Siani nel 2007 e i premi Paolo Giuntella e Marcello Torre nel 2012.
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