Giancarlo Siani

Giancarlo Siani, 40 anni dopo l’omicidio, suo fratello Paolo racconta gli anni passati a ricordare

Quarant’anni dopo l’omicidio del giornalista napoletano, Paolo Siani ricorda il fratello Giancarlo: non un “santino”, ma memoria viva che parla ai ragazzi di oggi.
Intervista a Paolo Siani
Medico, ex parlamentare, fratello di Giancarlo Siani, giornalista napoletano ucciso dalla camorra
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Giancarlo Siani e suo fratello Paolo
Giancarlo Siani e suo fratello Paolo
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Giancarlo Siani

Nell'Odissea, ad un certo punto, Ulisse si cala fra le ombre dei defunti.
Lì trova Achille e al Pelide, l'eroe che scelse una vita breve ed epica, si rivolge con parole di ammirazione e stima, pensando sia felice di questa gloria nel ricordo dei viventi. Ne riceve una risposta amara: «Non lodarmi la morte, splendido Odisseo…».
È una triste lezione che affonda le sue radici nella notte dei tempi: i morti non parlano, non sappiamo cosa direbbero ed è questo il senso atroce del distacco; al massimo direbbero che è meglio esser vivi, come pensa il soldato Joker di “Full Metal Jacket” nel capolavoro di Stanley Kubrick, facendosi largo tra i Vietcong uccisi in battaglia.

È un concetto che ho ben chiaro, come tutti coloro che hanno avuto dei lutti. Tuttavia alla fine farò lo stesso questa domanda a Paolo Siani, fratello di Giancarlo, il giornalista napoletano ammazzato dalla camorra a 26 anni il 23 settembre 1985, quarant'anni fa: che sarebbe, lui, oggi?

Non so quanta gente a Napoli conosca Paolo Siani non come «parente di una vittima della criminalità organizzata», la definizione burocratica è quella, ma soltanto come medico.

Paolo Siani a Napoli è un pediatra notissimo, ha lavorato e lavora in grandi ospedali come il “Cardarelli” e il “Santobono”. Da parlamentare progressista si è occupato di infanzia tentando di metter mano al marasma legislativo italiano. Di recente parla molto di bullismo nelle scuole, grazie ad una sua fortunata pubblicazione (“Cyberbullismo – Piccolo manuale per proteggere e guidare la generazione digitale”, Giannini Editore).

Quando il fratello è morto lui era agli inizi della carriera da medico. Giancarlo è stato ucciso sotto casa sua, al Vomero, lì dove abitava insieme ai genitori, Mario e Maria Pia, la cui vita si fermò, letteralmente, quel 23 settembre. Di omicidio e vicenda giudiziaria sappiamo tutto.

Ti ricordi il suo primo pezzo?

«Io ti dico uno dei primi ricordi. È quando leggo sul giornale “Giancarlo Siani”. Sono in ospedale coi miei colleghi, mostro il giornale. “Guardate qua, guardate che ha scritto mio fratello”. Avevo questa sorta di vanto, poter raccontare ai miei colleghi che Giancarlo stava sul Mattino».

Chi ha la mia età ha conosciuto Giancarlo dagli articoli, dai libri, dai documentari e dai film. Ma lui come iniziò, quando disse: «Voglio scrivere»?

«È iniziata secondo me alle scuole medie. Un insegnante illuminato s'inventa il giornale di classe, cosa che all'epoca non si faceva da nessuna parte. E Giancarlo comincia a lavorarci. L'insegnante vede che questo ragazzo è bravo, è portato, e lo nomina capo redattore.

E quindi lui fa le scuole medie, diventa redattore capo in questo giornalino di classe.
Poi fa il liceo, prende la maturità e comincia a dire: “Vorrei fare questo lavoro”.
Comincia a muoversi, finché poi arriva prima alla Cisl come addetto stampa, si occupa moltissimo di lavoro e manovalanza, e poi arriva al Mattino.
È un approdo, diciamo, contro la volontà della famiglia che non sapeva come potesse mai diventare giornalista.
E lui invece ci prova, ci riprova, e ci sta riuscendo. Era il ragazzo ventenne del Vomero che prende questa macchinina, la Méhari, e va a Torre Annunziata».

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Io non so se tu ci eri mai stato a Torre Annunziata in quegli anni…

Noi non sapevamo cosa ci fosse a Torre Annunziata, non la frequentavamo né noi né lui.
Però piano piano cominciammo a capire che era un posto complicato. E ne avemmo la certezza quando avvenne la strage (quella "del Circolo dei pescatori", 26 agosto 1984, 8 morti e 7 feriti ndr.), che era una domenica di agosto. Io mi ricordo che lui era al mare con Daniela, e chiamavano già a casa da tutta Italia per sapere cosa fosse successo.

E là ci rendemmo conto che Torre Annunziata era effettivamente un posto complicato, anche pericoloso. E che Giancarlo era già un punto di riferimento per tanti giornalisti.
Chi doveva sapere qualcosa su quella roba chiamava Giancarlo, che spiegava i fenomeni, raccontava i fatti. Non c’erano computer, non c’era Google: o c'era un esperto che conosceva i fatti, che stava là, oppure non potevi scrivere niente.
E lui scrisse».

Prima di registrare l’intervista Paolo Siani dice: «È un miracolo, mi sorprende ancora». Ringrazia più volte Geppino Fiorenza e il suo lavoro, perché la memoria di Giancarlo e delle tante, troppe vittime di camorra non si sbiadisca. E quando si emoziona (non è l’unico) ricordando i primi anni in cui andava in giro a raccontare del fratello, quasi si rimprovera da solo: «Dopo quarant’anni mi commuovo, sì».

Il miracolo è che dopo quarant'anni Giancarlo non sia un "santino", un nome da ricordare in una data, in un elenco, ma memoria attiva, concreta, portato avanti dai giovani. È stato un lavoro lungo e all'inizio non era così, vero?

Quando successe questa drammatica esperienza nella mia vita, io dopo un po’ capii che per poter far sì che avesse giustizia Giancarlo dovevo parlarne, dovevo raccontare chi era.
E quindi pensai di andare nelle scuole, dire: “Parliamo di Giancarlo”.
La reazione, nell’86-87, dei presidi delle scuole era: “Ma che c’entra la scuola con la camorra? Non ci riguarda. Mi dispiace, no”.

E quando qualcuno poi accettava che noi raccontassimo Giancarlo, oggi posso dire che lo faceva perché vedeva sul mio volto la sofferenza.

Poi capimmo che questa invece era la strada da percorrere: raccontare Giancarlo ai ragazzi.
E poi è successo appunto il miracolo, la svolta.
Quando arriva al Mattino come direttore Sergio Zavoli, organizzammo in tutte le scuole della Campania una giornata per Giancarlo.

E ricordo perfettamente, al cinema "Fiamma" che non esiste più, che Zavoli venne e parlò a un cinema stracolmo di ragazzi. Parlò di Giancarlo.
Fu un discorso stupendo, stupendo. E lì ci fu la svolta. Oggi io non riesco a andare in tutte le città d'Italia che mi invitano per raccontare Giancarlo: mi vogliono per raccontare di mio fratello.

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Nel corso degli anni sono state realizzati molti libri su Siani. Il più bello è sicuramente “L'Abusivo” di Antonio Franchini, pubblicato nel 2001. Anche molti documentari; ci sono due film che parlano della vicenda: “E io ti seguo” di Maurizio Fiume (2003) e “Fortàpasc” di Marco Risi (2009), in cui la tua famiglia ebbe un ruolo importante.

Marco Risi quando comincia a pensare al film vuole conoscerci. Cominciamo a incontrarci, finché poi Marco venne a casa nostra. E lui è riuscito a entrare proprio nel personaggio, a capire chi era Giancarlo attraverso i nostri racconti.
La cosa straordinaria è che mi mandò a leggere la sceneggiatura.
Io la lessi e dissi: “Bellissimo, si può fare”.

Poi cominciano le riprese, conosco “Picchio”, Libero De Rienzo (che interpreta Giancarlo ndr.), con cui abbiamo un grande rapporto di amicizia. Marco Risi fece un'altra cosa particolare: ci chiamò a Roma, io e mia moglie vedemmo il film non ancora finito.
Alla fine ci lasciarono mezz'ora soli, perché piangevamo moltissimo.

Poi ci confrontammo. Io dissi: “Marco, il film è stupendo, però il finale è sbagliato”.
Perché il finale prevedeva che Giancarlo ricomparisse: la scena era che al cimitero, tra gli alberi, Giancarlo ci salutava.
Dissi: “No, il finale non è così. Purtroppo lui non ricompare. Deve finire con le condanne all’ergastolo”. Marco, che è molto intelligente, capì e cambiò il finale».

Arriviamo a oggi. C’è un anniversario. È un modo anche per fare i conti con questa vicenda, e pure con noi stessi.
Che tipo di giornalista voleva diventare Giancarlo?

«Allora, che cosa sarebbe oggi non lo so. E non lo può sapere nessuno.
E questo lo dico per sottolineare la malvagità della camorra, che sottrae alla società capitale umano.

Poteva diventare un grande giornalista? Non lo sappiamo.
Come voleva lui diventare giornalista, neanche lo sappiamo. Perché all’epoca era agli inizi. Ma in lui c’era già la cifra: fare il giornalista significava, per lui, un duplice intento.
Raccontare i fatti ma provare a migliorare i posti dove stava.
Quando mi raccontava di Torre Annunziata, provava sempre a dare uno spunto positivo:
"Come si può risolvere il problema della crisi del lavoro? Come si può dare una speranza a questi ragazzi delle scuole?"».

L’ultima domanda: avete costituito una Fondazione Giancarlo Siani. Ci sei tu, ci sono i tuoi figli Gianmario e Ludovica, tanta gente che vi dà una mano. Quali sono gli obiettivi prossimi?

L’obiettivo principale nostro è che si parli di Giancarlo.
Quest'anno usciremo con un libro edito da Marotta e Cafiero, un libro fatto in due parti: si legge un lato A, poi si gira e c’è il lato B. Come ha scritto Ludovica, mia figlia, nella prefazione, è una clessidra: c’è il lato A, il racconto di Giancarlo, quello che lui scriveva.
Poi finisce il tempo, finisce la sua storia, e tu giri il libro: la clessidra ricomincia a scorrere, e ricomincia il racconto dopo Giancarlo. Quindi ci sono i racconti di chi lo ha conosciuto, i suoi amici, ma anche scrittori, registi come Marco Risi, gente che lo ha interpretato e raccontato dopo. È un libro che racconta il prima e il dopo.
Noi ci auguriamo che sarà così: che parlerà di lui anche senza di noi, e anche dopo di noi.

Quarant'anni dopo non era affatto scontato che io stessi qua a parlarne oggi.
E che tanti ragazzi, che non ho mai conosciuto, oggi lo ricordino.
E quando vedono la Mehari o vedono il suo volto, sanno chi era e cosa faceva.

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