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Lo scrittore Andrea Vitali: “Milano ha significato molto per me, ma ha un fascino che non comprendo”

“Milano mi stanca abbastanza rapidamente mentre a Bellano, dove sono e vivo, non avverto quasi mai queste sensazioni di stanchezza del paesaggio”: a dirlo a Fanpage.it è lo scrittore Andrea Vitali.
A cura di Paolo Giarrusso
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Lo scrittore Andrea Vitali
Lo scrittore Andrea Vitali

Andrea Vitali, 69 anni, è uno scrittore di successo che tra le sue opere conta La figlia del Podestà, La Modista o Almeno il Cappello ed è stato tra i finalisti del premio Strega e del premio Campiello 2009. Alla sua professione di scrittore, ha alternato quella di medico che ha praticato a Bellano, paese della sponda orientale del lago di Como. Nel 2014 è andato in pensione e adesso è uno scrittore a tempo pieno. A Fanpage.it parla della sua professione passata e presente, del suo rapporto con Bellano e di quello con Milano: "Milano mi stanca abbastanza rapidamente mentre a Bellano, dove sono e vivo, non avverto quasi mai queste sensazioni di stanchezza del paesaggio".

Dopo oltre 30 anni è in pensione. Possiamo dire che se ne è andata una parte di lei. Prova una sensazione di tristezza o che altro?

Devo dire che non ho patito molta tristezza quando, nel 2013, mi sono deciso ad abbandonare la professione medica. Questo perché il lavoro era mutato sotto molti aspetti rispetto a quando avevo cominciato. Tempi in cui il rapporto era meno mediato dalla tecnologia e più diretto con i pazienti, con gli assistiti, con la gente che veniva in ambulatorio. Tutto ciò mi aveva portato a lavorare con una certa difficoltà. Ho preferito, avendone la fortuna, dedicarmi completamente alla scrittura, lasciando la professione medica e le nuove frontiere della medicina di base, molto cambiata rispetto ai primi vent’anni in cui l’ho praticata.

Lei da sempre ha avuto il pallino della scrittura. Da ragazzo voleva fare il giornalista, ma su pressante consiglio di suo padre, è diventato medico. Fare il medico ha favorito il suo essere scrittore?

Sicuramente ha agito su di un terreno fertile, su cui poi sono fiorite molte cose. La principale è stata la possibilità di mettermi in connessione con la piccola fetta di umanità, che mi competeva per dovere professionale. Ho potuto sviluppare i rapporti interpersonali soprattutto negli anni in cui quel tipo di medicina si praticava con la parola e con l'ascolto. Si entrava nella privatezza altrui, si scandagliavano i caratteri, si imparavano i modi di fare, di porsi di fronte agli altri. Tante cose che indubbiamente hanno arricchito la conoscenza, inizialmente scolastica, della persona, dell'essere umano, corroborata poi dall’esperienza sul campo. Oltre a quelle che io definirei le "chiacchiere", che hanno sempre fatto da contorno al motivo principale per il quale questa o quella persona veniva in ambulatorio. Chiacchiere che spesso sconfinavano e che a volte hanno fatto scattare quella piccola molla che ti fa dire: dentro questa cosa che hai ascoltato, ci può essere veramente una storia, un racconto, un romanzo, ecc. Da lì in avanti si tratta solo di impegnarsi un po' e di sviluppare un'eventuale trama.

Lei è profondamente radicato a Bellano dove tutti conoscono lei e lei conosce tutti. Come definirebbe il suo rapporto con Bellano?

Un rapporto di profondissimo amore. Forse il primo grande amore della mia vita. Già dai primi ricordi giovanili spicca questo: l'aver compreso rapidamente di essere stato molto fortunato di essere nato qui dove attualmente ancora vivo. È un rapporto che si è consolidato con la conoscenza graduale del luogo in cui vivo. Conoscenza che, nel suo nucleo più importante, si è determinata in un'età già abbastanza matura: vale a dire dopo l’università. Dopo ciò ho cominciato a conoscere sempre di più questo luogo, con la libertà di praticarlo sia nella sua fisicità che nella sua umanità. Questi sono tutti elementi che, pian piano, mi hanno radicato sempre di più in questa terra.

Negli anni '80 studiava a Milano psichiatria e, di recente, ha pagato un affitto a suo figlio sempre a Milano dove studia filosofia neoplatonica. Milano ha significato molto per lei?

Tantissimo. Negli anni dell’università, Milano era il punto di riferimento obbligatorio per portare avanti lo studio. Successivamente è diventata, per me, il centro di riferimento per quanto riguarda l’editoria. Non nego assolutamente a Milano di essere indispensabile per tante ragioni. Le nego, però, un certo fascino che non riesco a comprendere. O perlomeno lo comprendo, ma con una fascia oraria molto limitata. Questo per dire che Milano mi stanca abbastanza rapidamente, mentre a Bellano, dove sono e vivo, non avverto quasi mai queste sensazioni di stanchezza del paesaggio, della situazione, della condizione umana. A Milano la condizione umana mi esaurisce abbastanza in fretta. Non vedo l’ora, a un certo punto, di tornare a casa, di tornare al mio nido.

È vero che lei capì che voleva fare lo scrittore quando cominciò a scrivere lunghe lettere a Manuela, che sarebbe poi diventata sua moglie? E che cosa raccontava in queste lettere?

Non è stato proprio quello il momento in cui capii che volevo fare lo scrittore. Era già confermata in me questa intenzione, in quegli anni post universitari. È assolutamente vero, però che usavo la scrittura come mezzo per comunicare intimamente. Erano, quindi, lettere legate alle sensazioni che provavo nei suoi confronti e che tentavo poi di infiorettare, di abbellire con invenzioni anche abbastanza surreali. Cercavo di far passare questi messaggi profondamente intimi e privati con una prosa che potesse dar loro una forza d'impatto ancora maggiore rispetto al sentimento.

Lei si è definita benestante e non ricco. Niente barche, né ville, né abiti firmati. La serenità è la più grande conquista per un essere umano?

Direi assolutamente di sì. Direi che quell’aurea mediocrità (non vorrei sbagliare la citazione) di stampo ovidiano, sia la condizione ideale perché si tratta di una mediocrità che non è mediocrità, nel senso più deleterio della parola. È la capacità di conoscere le proprie ambizioni e, quindi, di non appesantire la propria vita superando i confini di queste stesse ambizioni. Occorre cercare di realizzare un'ambizione pregevole, umana. Andare al di là di certi confini, essere un po' arroganti nel non voler conoscere se stessi e i propri limiti, diventa una condizione in cui la serenità va a farsi benedire. Quindi avvelena le giornate e, a lungo andare, la vita.

I social sono a lei estranei. È per questo che vive sereno, senza invidie, commenti cattivi frasi malvagie, etc?

Confermo quello che lei ha detto. I social mi sono assolutamente estranei. Mi sembra anche tempo perso, stare delle ore davanti a un pc o a uno smartphone, attaccati a queste cose. Preferisco dedicare quel tempo a una banale, semplice, ma tonificante passeggiata. Mi fa stare sicuramente molto meglio rispetto a rimanere chiuso in casa davanti a un computer o ad un cellulare. Se devo scambiare un parere, preferisco farlo a parole, di persona.

Invidia e gelosia però fanno parte dell’animo umano. Lei come le combatte?

Quando le percepisco, cerco di non dar loro spazio in quello che dico. Il fatto di percepirle, poi, credo risulti un aspetto istintivo quindi difficile da controllare. Però se uno se le tiene per sé e non dà corso a queste cose con parole, azioni, atti, ecco che invidia e gelosia vanno a morire. Poi ho anche la fortuna di essere lontano dai centri dove queste invidie e gelosie possono nascere. La lontananza è un’ottima medicina per far dimenticare in fretta certe cose.

Nei suoi romanzi che cosa ha raccontato finora e che cosa vorrebbe raccontare ancora?

Finora ho raccontato queste situazioni tipiche, classiche di un mondo piccolo di provincia, che non significa inferiore ad altri mondi. Mi è sempre piaciuto plasmare o riplasmare certe situazioni, reperite qua e là, in termini di commedia. Adesso come adesso, c’è una fase di ripensamento su tante cose, visto che il tempo passa e la pensione probabilmente ha agito anch'essa in questo senso. Mi piacerebbe, ora, scrivere le spinte interiori che mi hanno portato a raccontare queste commedie, che hanno un segno distintivo molto diverso. Se da una parte la commedia ha un portato di assoluto divertimento, queste spinte interiori hanno un portato a volte più riflessivo: gli affetti, il pensiero della morte, gli errori fatti nel passato e tante altre cose che sono in attesa di essere raccontate, se ne avrò il tempo, la forza, la capacità di farlo.

Mamma e papà, che cosa hanno rappresentato, per lei?

Guardi, mia madre tanto, ma anche poco, per il poco tempo a disposizione che ho avuto per conoscerla. L'ho perduta a 17 anni. È una figura che talvolta rincorro col pensiero, per cercare di estrarre da questo passato abbastanza lontano delle immagini ben precise. Di mia madre, la cosa che ricordo di più e peggio, sono gli ultimi mesi di vita, di malattia, di sofferenza, la sua morte. Mio padre ha rappresentato una sorta di luna: c’è un lato che vediamo sempre e uno che non vediamo mai e che ho capito col passare degli anni. Certi suoi atteggiamenti, quando ero giovane, erano per me assai disturbanti. Poi ho capito che erano atteggiamenti necessari, legati alla condizione in cui si è trovato: solo, senza moglie, con sei figli giovani, alcuni giovanissimi, sulle spalle. Un rapporto quindi continuo, tanto che sogno molto più spesso lui che non mia madre. Questa cosa è estremamente importante perché vuol dire che è un rapporto che ancora si sta elaborando, sta cercando di trovare una sua precisa definizione, se mai la troverà.

Nella sua vita ha affrontato la depressione. Come l'ha vinta?

Dapprima ho agito scioccamente pensando di potermela sfangare da solo con l’illusione, la vanità, la presunzione, essendo medico, di poterla affrontare con le mie sole forze, che invece non avevo. Mia moglie e mio figlio, definitivamente e in maniera piuttosto decisa, mi hanno messo di fronte al fatto che la cosa andava affrontata diversamente. Questo tipo di confronto, molto duro, ma molto pratico e molto vero, è stato il momento in cui è iniziato il vero percorso di uscita dalla depressione che poi fortunatamente è durata solo qualche mese, anche se è stato un periodo veramente buio, cupo. Le prime due spinte, quasi terapeutiche, per uscirne, sono state in famiglia.

Oggi, lei, davanti a che cosa si commuove?

È un periodo in cui mi commuovo particolarmente, ritrovando certe piccole felicità, che ci sono sempre state ma che forse in gioventù, o con la testa piena di altri progetti, non ho mai verificato. Mi commuove, ad esempio, passeggiare, soprattutto nelle ore morte, nel vecchio nucleo di Bellano, guardando le case chiuse e pensando alle vite che sono trascorse dentro quelle mura attualmente disabitate. Pensare a quelle gioie, quelle speranze che si sono animate dentro lì e si sono realizzate o sono rimaste speranze e gioie solo sognate, mi fa salire la commozione, perché mi fa sentire proprio parte di un movimento comune, di una fisiologia non solo di corpi, ma anche di anime, destinate a passare, avendo però lasciato qualcosa alle spalle.

Un’ultima domanda: la dote migliore per un bravo medico e per uno scrittore. Lei, per tanto tempo, è stato entrambi…

La dote migliore per un medico è di essere disponibile, che vuol dire ascoltare. Guardare, avere sotto gli occhi la persona che si riferisce a te e non fidarsi solo del telefono p del computer. Sin dall’antichità s’insegna a guardare, vedere, cogliere, ascoltare, non solo i sintomi riferiti, ma occorre cercare i segni. Devo dire, per esperienza diretta di mia moglie, che i medici giovanissimi che la stanno seguendo, hanno fortunatamente questo atteggiamento. Questa cosa mi ha reso veramente felice. Per quanto riguarda gli scrittori, dipende da quello che uno vuole scrivere, ma direi assolutamente la chiarezza, l’uso della nostra magnifica lingua, che permette di essere chiari, chiarissimi, in maniera esaustiva. La chiarezza è una dote fondamentale. Certo, non si può applicare ad un trattato di filosofia,  ma ai romanzi sì. Ai romanzi che vogliono, nei limiti del possibile, raggiungere e farsi leggere da chiunque.

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