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Opinioni

Il vero problema del modello Milano è che piace solo a chi ha una casa di proprietà

Prima era la città di chi voleva lavorare. Oggi è diventata la città di chi possiede case e dei turisti esteri. E questo sarebbe un modello di successo?
A cura di Antonio Belloni
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“Lo fai per investire o per abitarci?” è una delle prime domande che ti senti fare quando compri casa a Milano, e l’ha raccontata di recente nella trasmissione Connessi di Chiara Piotto su SkyTg24 il giornalista Luca Rinaldi, cogliendola bene come la micro-descrizione di una macro-realtà.

Si fosse dilungato, avrebbe potuto proseguire questo discorso immaginario con un agente immobiliare – categoria mai abbastanza raccontata anche se depositaria di incredibili verità – con quest’ultimo che si sbottona così: “anche io ho tre appartamenti messi a reddito con gli affitti brevi…”.

Se infatti la filiera della casa come prodotto di investimento e non più come abitazione parte fisiologicamente da fondi/banche/assicurazioni, dove arriva se non al vicino o allo zio che ha messo a reddito la casa ricevuta dalla nonna e tra un anno – RSA permettendo – anche quella ricevuta dal nonno?

Il mercato è fatto di conversazioni come queste, e parlano chiarissimo:

se compri un trilocale nel 2023 a 400.000€ e nel 2025 citofona l’agente immobiliare dicendoti che ora puoi tranquillamente venderlo a 570.000€ cosa fai? ti butti;se ti chiama l’agenzia che gestisce gli affitti brevi e dice che il seminterrato con affaccio su strada che affitti al panettiere per 750€ al mese potrebbe renderti 150€ a notte che fai? Ti butti.

No. Milano non ha un problema di scarsità di immobili. È semplicemente l’avidità di ognuno di noi a trasformarla in una borsa di investimenti immobiliari a cielo aperto molto profittevole: di fronte alla possibilità di un guadagno superiore, chiunque si butta.

È normale. E il mercato, che poi siamo noi, fa la sua parte: alza la mano per chiedere più immobili.

È così che la casa è entrata a far parte di diritto delle narrazioni popolari nazionali che hanno per oggetto Milano: anche a Bari, se dici casa e investimento dici Milano.  E sono le narrazioni economiche – per intenderci quelle del Nobel Robert Shiller – a fare il prezzo ed a fare anche le scelte di investimento.

Ecco perché gli affitti brevi – che se pesati coi dati non cubano più del 2,2% del totale delle case sul mercato – danno, comunque, una spinta decisiva all’aumento generale dei prezzi, con la loro promessa di grandi guadagni.

Le decisioni, anche quelle di acquisto per investimento o di cambio di residenza, sono infatti prese sulla base di percezioni, emozioni e narrazioni, non solo di dati. E ce lo ricorda la fantomatica percezione della sicurezza e della microcriminalità: i dati dicono una cosa, la percezione un’altra.

È normale: ce lo dice il nostro istinto di sopravvivenza e, per le case, di accaparramento.

Ecco perché oggi è naturale che la casa a Milano si sia guadagnata un posto fisso ed invidiabile nei portafogli di investimento in cui finiscono i risparmi di così tante persone. Un portafoglio che più o meno è distribuito in questo modo:

  • il 50% investito in una casa a Milano;
  • il 25% in BTP ed ETF;
  • il 25% in azionario italiano.

A proposito, la finanza vive ora una grande contraddizione: si è inventata Mini Bond, PIR, agevolazioni alle quotazioni, Fondi pubblici di investimento per facilitare la canalizzazione dei risparmi privati verso le imprese, ma il mattone vince sempre su tutto e imperversa anche nei suoi investimenti…con buona pace di ministri ed ex ministri latori di queste pregevoli normative, che non disdegnano di affidare ai figli la gestione della società di partecipazioni immobiliari di famiglia.

È però qui che la politica dovrebbe sfidare l’ipocrisia, come tenta di fare in molte delle città occidentali in cui questo problema è replicato: per fermare non tanto il guadagno in sé, l’immobiliare in sé, il circuito di investimenti in sé, che hanno diritto di esistere ed operare sempre nel rispetto della legge…

…quanto per fermare il flusso inesorabile di quelle famiglie e di quei lavoratori che prima abitavano nell’appartamento passato da 400.000 a 580.000 €, ed ora se ne vanno ad Abbiategrasso, a Vimercate e a Corsico: cittadini-proprietari che lasciano il posto a turisti-investitori.

Sono ormai sempre di più i palazzi milanesi che pochi anni fa ospitavano 30 famiglie, ed ora ospitano 15 famiglie e 15 appartamenti adibiti ad alloggi per turisti, persone che non sono più cittadini e non calcano più i marciapiedi come i cittadini, e nemmeno fanno la differenziata come i cittadini residenti.

Tra questi cittadini-residenti che se ne vanno capita sempre più spesso di trovare gli “sfortunati” che non abbiano case ereditate da nonni e zii a Milano, né per viverci e neppure da mettere a reddito con gli affitti brevi.

Ma capita altrettanto spesso che tra questi cittadini ci siano quelli in una fascia milanese molto ampia e che ha redditi lordi annui fino ai 55.000 € (la fascia più diffusa ha redditi tra i 26.000€ ed i 55.000 € annui. Fonte Oca su dati MEF).

Se poi questi cittadini senza patrimonio alle spalle, ma con un reddito troppo basso perché Milano sia sostenibile, fanno lavori sensibili, a rischio è la servibilità della città (la sua capacità di fornire servizi): sono tra le forze dell’ordine, i conducenti dei mezzi pubblici, gli insegnanti, gli infermieri…

Viviamo dunque in una città in cui il patrimonio è ben protetto ed avvantaggiato, ma dove il reddito è svantaggiato e dimenticato. E se il costo della casa supera abbondantemente il reddito da lavoro, allora la città produce due cose: povertà o cittadini-residenti-in-fuga.

Ma perché è una realtà che ci preoccupa, se in fondo arricchisce molti di noi?

La ragione sta nel cambio di narrazione che ci sta dietro, e ciò che comporta.

La narrazione milanese precedente all’attuale SIA – lo SVILUPPO IMMOBILIARE ACCELERATO, ovvero di prezzi al metro quadro che crescono senza ragioni economiche giustificabili dall’aumento di reddito da lavoro prodotto; un’esuberanza irrazionale, direbbe Shiller – gli era infatti opposta e contraria.

Prima il reddito da lavoro vinceva sul patrimonio. Si era disposti a fare qualche anno di sacrifici ed a pagare una casa molto cara a Milano perché nel giro di qualche anno la laurea, il primo impiego e tante ore di straordinari avrebbero portato chiunque ad uno stipendio alla milanese.

Era il regno delle opportunità.

Questa era la promessa per cui Milano era conosciuta ed invidiata e valeva bene un trasloco. In termini di marketing e vita significava vieni, fai sacrifici e guadagnerai. Ed era una promessa garantita dal mondo della creatività, della pubblicità, della moda, della comunicazione ed anche dalla finanza.

È però una promessa finita e schiantatasi contro la nuova realtà hamburger-aperitivo-Fuori Salone. Milano è cambiata: vince chi ha, non chi fa. Vince solo chi riesce a comprarsi una casa o due che poi venderà al doppio del prezzo d’acquisto, non più chi guadagnerà il doppio di quando è arrivato.

Se ne accorgono – nemesi fatale! – perfino gli ultra-benestanti, quando i loro figli si laureano: sono basiti per il fatto che i salari di questi ultimi non siano sufficienti non solo a comprare casa, ma nemmeno a gestirsi una vita autonoma fatta di un primo piccolissimo appartamento in affitto.

Però no, Milano non ha bisogno di un salario minimo impanato alla milanese. Ha bisogno di tornare a puntare verso l’alto, di credere che il successo, i guadagni, la soddisfazione personale arrivino dal lavoro e dai sacrifici professionali, non dalla casa ereditata che ti permette una vita comoda.

Guardassimo solo ai numeri – dimenticando le parole della gente comune – potremmo stare tranquilli: l’indice delle bolle immobiliari di UBS mette Miami, Tokyo e Zurigo ai primi posti, mentre Milano ha un rischio bolla molto basso.

Ascoltassimo invece le narrazioni di strada – ma la politica scende ancora in strada? – vedremmo una lenta e costante erosione del patrimonio delle famiglie, anche quelle benestanti, che non si rigenera mai abbastanza velocemente per mantenere generazioni che non guadagnano mai abbastanza.

Vedremmo giovani brillanti, laureati in ottime università e ora dipendenti di sfavillanti start up milanesi arrancare con 25.000 € lordi annui, nella speranza che il nonno passi a miglior vita lasciando loro il famoso appartamento in Porta Romana ormai unico argomento delle conversazioni coi genitori.

Vedremmo una città di pensionati fortificata che si spopola di cittadini, quindi di elettori, e ha sempre meno giovani pronti a ringhiare per pretendere una fetta di opportunità, ma sempre di più propensi a difendere i privilegi di famiglia ed a consumare le aspettative con avido anticipo.

In una famosa scena di Fight Club, Tyler Durden dice che è solo quando abbiamo perso tutto che siamo liberi di fare qualsiasi cosa. E la brutta notizia è che prima di aver perso tutto il nostro patrimonio potrebbe passare molto, troppo tempo.

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Antonio Belloni è nato a Milano nel 1979 ed è coordinatore del Centro Studi di Artser. Scrive d'impresa e management ed ha pubblicato Esportare l'Italia (2012, Guerini Editori), Food Economy (2014, Marsilio) e Uberization, il potere globale della disintermediazione (2017, Egea).
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