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Chi sono gli oltre 100 italiani che partecipavano ai “safari umani” di Sarajevo: il profilo psicologico

I cecchini che andavano a sparare ai civili a Sarajevo erano “alla ricerca dell’adrenalina pura, senza essere mossi da odio religioso o ideologie politiche”. È il profilo psicologico tracciato dalla criminologa Martina Radice, che ha spiegato a Fanpage.it come questo tipo di “turismo di guerra” sia associabile a una “psicopatia d’élite”.
Intervista a Martina Radice
Criminologa
A cura di Enrico Spaccini
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Un cecchino serbo in Bosnia nel 1993 (foto da Getty)
Un cecchino serbo in Bosnia nel 1993 (foto da Getty)

Martina Radice è la criminologa che ha aiutato il giornalista e scrittore Ezio Gavazzeni a costruire il profilo dei soggetti che andavano a Sarajevo a sparare ai civili "per divertimento" durante gli anni dell'assedio serbo. Intervistata da Fanpage.it, ha raccontato di come ormai ci sarebbero testimonianze e fonti a sufficienza per affermare che "sicuramente più di cento italiani sono coinvolti nei safari umani" e che tra questi ci sarebbero "medici, magistrati, avvocati, notai e imprenditori, persone che potevano spendere anche 300mila euro di oggi in un weekend". Secondo Radice, questi "turisti di guerra" non sarebbero stati animati da odio religioso o ideologie politiche, ma "solo dalla ricerca della pura adrenalina".

Martina Radice, criminologa
Martina Radice, criminologa

In che modo ha collaborato con Gavazzeni nell'esposto sui cecchini di Sarajevo?

Ezio mi ha coinvolta circa un anno e mezzo fa raccontandomi questa storia che era agli albori, perché dovevamo ancora cercare più informazioni, più fonti e più dettagli. Mi aveva chiesto di stilare quello che poteva essere un profilo criminologico del "cacciatore tipico" in questo caso italiano, ma è un fenomeno internazionale. Molti Paesi dell'occidente sono coinvolti: per esempio Francia, Inghilterra e Spagna per l'Europa, ma anche gli Stati Uniti.

Così all'esposto che è stato presentato in Procura a Milano abbiamo allegato una mia consulenza per il pubblico ministero, proprio per aiutarlo con le indagini. È questo lo scopo del criminal profiling: individuare il profilo criminologico di soggetti di cui non conosciamo il nome lavorando mediante le tracce che hanno lasciato e i crimini che hanno commesso. In questo modo si può risalire a una determinata categoria di soggetti.

A quale categoria di soggetti apparterrebbero questi "cecchini del weekend"?

Parliamo di persone che oggi potrebbero avere tra i 60 e gli 80 anni, perché all'epoca negli anni '90 erano molto giovani, tra i 30 e i 40 anni d'età. Sono soggetti con una elevatissima disponibilità economica, sicuramente sopra la media, che stavano ai piani alti della società e che soprattutto avevano come denominatore comune la passione per la caccia. Sappiamo che questi stessi soggetti già facevano safari illegali, andando a uccidere elefanti, leoni e altri animali di grossa taglia. Fonti sempre più certe ci hanno fornito altri dettagli, di cui però ancora non possiamo parlare per via delle indagini. Tra di loro si chiamavano "arcieri" e oggi possiamo definirli anche come serial killer.

Quanti sarebbero?

Sappiamo che gli italiani coinvolti sono un numero molto ingente, oltre il centinaio sicuramente.

Non si parlava di tre o cinque al massimo?

Quelle sono le persone certamente coinvolte sin dall'inizio. Da altre fonti, però, siamo riusciti ad avere un numero esatto e le posso dire che sono sicuramente più di cento. Alcuni saranno ormai deceduti, ma molti altri invece no. Intanto l'obiettivo è individuarne uno e poi si aprirà il vaso di Pandora.

I civili che corrono lungo la "sniper alley" cercando di evitare il fuoco dei cecchini (foto da LaPresse)
I civili che corrono lungo la "sniper alley" cercando di evitare il fuoco dei cecchini (foto da LaPresse)

Perché è così difficile individuare almeno uno di questi "arcieri"?

Il problema principale è che quando pensiamo a un serial killer, lo immaginiamo come un soggetto ai margini della società, che ha disturbi mentali più o meno evidenti, isolato anche dal punto di vista fisico. Qui, però, si tratta di persone che occupano i corridoi del potere e che vivono nel lusso. Ci sono soggetti che lavoravano come medici, magistrati, avvocati, notai e imprenditori che dal lunedì al venerdì svolgevano normalmente la loro attività e godevano del riconoscimento della società, poi il venerdì sera partivano e andavano a sparare a persone inermi. Un contrasto che possiamo identificare nella psicopatia d'élite, dove il soggetto riesce tranquillamente a vivere entrambe le facce della stessa medaglia. Stiamo parlando di persone che potevano spendere senza problemi anche quelli che oggi sarebbero 300mila euro in un weekend solo.

Parliamo sempre di persone che pagavano per uccidere civili, anche bambini. Come possono continuare a vivere in società?

Infatti, secondo me, sono soggetti che ancora oggi sono altamente pericolosi. La domanda è proprio questa: finita la guerra in Bosnia, dove sono andati, cosa hanno fatto? Sono persone che hanno tutto nella vita: soldi, famiglia e riconoscimento sociale. È come se avessero accumulato la noia a tal punto che l'unica via d'uscita l'hanno trovata nella pura adrenalina. Si tratta di soggetti appassionati di caccia, che poi finiscono a fare safari illegali e raggiungere l'apice dell'adrenalina nella caccia alle persone.

Queste persone, secondo lei, agivano per odio religioso, per motivi politici o avevano un altro movente?

Abbiamo cercato un movente, abbiamo provato ad analizzare tutto, ma non è emerso nulla che possa ricondurre queste azioni a motivazioni religiose o politiche. Le escludo proprio. Alla base di tutto c'è proprio la ricerca di adrenalina. Non c'era nessun interesse a eliminare per motivi, diciamo, superiori. Era proprio il semplice piacere di uccidere.

È possibile, dunque, che una volta terminata la guerra, negli anni seguenti questi soggetti abbiano commesso altri tipi di reati. Potrebbero essere investimenti pericolosi nel mondo degli affari, o maltrattamenti contro la compagna, o comunque episodi di violenza che non hanno avuto grande copertura giornalistica. Comunque sia, ancora oggi il turismo di guerra è presente. A Gaza arrivano turisti per fare picnic mentre con il binocolo guardano le bombe esplodere e le persone morire.

Stando a quanto è emerso finora, anche da testimonianze come quella della giornalista bosniaca Mensura Burridge, ci sarebbero state persone che andavano a Sarajevo per sparare arrivando da contesti socio-politici molto diversi tra loro. All'inizio dalla Russia, Bielorussia e Grecia, poi Inghilterra, Germania, Italia e Stati Uniti. Cosa accomuna tutti questi soggetti?

Ci sono due elementi basilari: la passione per la caccia e i soldi. La caccia è l'aspetto fondamentale, perché queste persone sapevano già maneggiare le armi. Inoltre, dovevano essere persone talmente ricche da poter buttare i propri soldi per commettere crimini atroci. Poi c'è anche l'elemento della scelta, perché i bersagli preferiti da questi cacciatori erano bambini e ragazzine in giovane età. Dovevano perciò avere un movente anche di natura possessiva e sessuale: l'aspetto sadico di uccidere una ragazzina e il sentirsi onnipotenti nel poter decidere quando può morire e in che modo. Quest'ultimo è un aspetto che riguarda soprattutto chi allora svolgeva la professione di medico, una persona che dovrebbe salvare le vite, e non toglierle.

Anche lo stesso termine "safari umani" con cui sono state definite queste pratiche non appare casuale, come se indicasse sin da subito che la persona da uccidere non è considerata niente di più di un animale, una preda.

Certo, anche perché si posizionavano a distanza per sparare. Quindi anche l'avere questo tipo di precisione e le armi giuste per poter colpire il bersaglio implicano una certa professionalità nella caccia: sapevano dove e come sparare, proprio come in un safari.

Il fatto di uccidere "per adrenalina" e senza alcun movente religioso o politico può essere considerato un altro fattore di disumanizzazione della vittima?

Assolutamente sì. Uccidevano perché potevano farlo. Vedevano una persona inerme camminare e decidevano di togliergli la vita. È proprio la mercificazione della vita umana.

Il muro di auto costruito dai cittadini di Sarajevo per proteggersi dai cecchini (foto da LaPresse)
Il muro di auto costruito dai cittadini di Sarajevo per proteggersi dai cecchini (foto da LaPresse)

Si può ipotizzare un qualche tipo di legame tra questi soggetti coinvolti, come una sorta di associazione?

Non credo, secondo me era più un fenomeno individuale. Molto probabilmente dietro c'era un'organizzazione che adescava questi soggetti, che sapeva dove andarli a cercare e li portava a Sarajevo. È possibile che qualcuno abbia chiesto a un suo amico fidato di accompagnarlo, ma penso sia un caso raro. La cosa più importante, infatti, era garantirsi la propria impunità. Quindi meno persone erano a conoscenza di questi crimini, più il soggetto di sentiva tutelato. La cosa che temono di più è proprio l'essere scoperti perché, come dicevo prima, stiamo parlando di persone per le quali perdere credibilità sarebbe una delle cose più gravi che gli possa capitare.

Perché se ne parla ora, a 30 anni di distanza?

C'è stata tanta omertà in questi anni. È impossibile che nessuno sapesse o abbia provato a indagare come stiamo facendo ora. È, invece, probabile che ci abbiano provato e si siano fermati per qualche motivo. Noi non abbiamo ricevuto alcun tipo di intimidazione, ma non escludo che possa accadere in futuro. Ormai, però, la notizia di questa indagine ha fatto il giro del mondo, Ezio Gavazzeni è stato contattato da giornalisti anche dal Giappone e dall'Australia, mentre io sono stata intervistata una settimana fa da giornalisti spagnoli. Secondo me adesso è difficile fermare l'indagine, anzi un'intimidazione potrebbe essere anche controproducente. Mi aspetto di tutto, ma non ho paura perché sono sempre dalla parte della verità.

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