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Opinioni

La partita di Renzi su lavoro e riforme, con l’incubo di “fare la fine di Letta”

Dopo la fiducia per il Presidente del Consiglio comincia il vero banco di prova: cambiare il Paese, con questa maggioranza (e questi numeri). Una sfida ardua e il rischio fallimento è dietro l’angolo. Perché gli ostacoli sono gli stessi cha hanno affossato Letta.
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Matteo Renzi lo ha detto molto chiaramente, sia alla Camera che al Senato: "Non ci sono più alibi, se falliamo è colpa mia". Un concetto che fa capire non solo il peso di cui si è fatto carico, ma anche lo stato d'animo con cui Renzi si avvia a governare il Paese: una sfida, caricata di enfasi e toni da crociata, ma soprattutto una responsabilità enorme, nei confronti del Paese e, in subordine, degli elettori del Partito Democratico. Lo ha spiegato lui stesso nell'intervista a Ballarò: "L’urgenza del cambio della guardia al governo è dettata dall’angoscia delle persone che vogliono che le cose cambino. E io avverto quest’ansia". Del resto Renzi sa benissimo di essere arrivato a Palazzo Chigi nel modo peggiore possibile: con una operazione da Prima Repubblica, una manovra di palazzo frutto del "tradimento" e di tante "mezze menzogne", figlia certo di valutazioni politiche, ma vista come il trionfo dell'ambizione e dell'arrivismo (non solo dagli avversari politici).

Insomma, "ormai è andata, ora andiamo avanti", come si mormora da giorni in ambienti vicini all'ex rottamatore. Perchè, al di là delle ricostruzioni improntate sull'energia e sulla velocità di Renzi (che hanno disegnato "il moto instancabile e frenetico" del segretario democratico sfiorando a volte il ridicolo), vi è davvero una partita molto complessa da giocare. E la formazione di Renzi non vi arriva certo nel modo migliore: una squadra rinnovata solo per metà, con tanti punti interrogativi, qualche conflitto d'interessi (che non guasta mai) e nessun vero fuoriclasse; una maggioranza risicata e tutt'altro che compatta; un programma tutto da impostare e soprattutto margini di manovra davvero ridotti al minimo. Certo, sulle riforme dovrebbe, o meglio potrebbe, arrivare l'aiuto da Arcore, ma quanto sia affidabile Berlusconi su un tema del genere è tutto da vedere. E, in ogni caso, la tendenza sarà quella di tenere i due piani, riforme e (stra)ordinaria amministrazione, il più possibile separate.

Dunque si comincia, dall'agenda dettata dallo stesso Renzi qualche giorno fa: a febbraio le riforme elettorali e costituzionali, a marzo il lavoro, ad aprile la riforma della Pubblica amministrazione, a maggio il fisco. Nei prossimi giorni Renzi conta di riaprire il processo sull'Italicum, in stand by alla Camera e comunque al centro delle tante perplessità del Nuovo Centrodestra. Perché il premier avrà pur ribadito più volte in queste ore che "le riforme istituzionali e l'Italicum possono procedere di pari passo" e che non ha senso congelare la legge elettorale visto che è già partita la discussione alla Camera, ma i centristi (e parte della minoranza Pd) non sembrano convinti e ripetono come un mantra: approviamo l'emendamento Lauricella, facendo sì che la riforma elettorale entri in vigore solo dopo il superamento del Senato. Una questione cruciale, perché toglierebbe al premier anche l'ultima leva di pressione sulla maggioranza. Per non parlare poi delle tante resistenze che l'intero progetto di riforme è destinato ad incontrare, non solo per l'opposizione netta del Movimento 5 Stelle, ma anche per un clima non certo idilliaco al Senato (e con quei numeri poi…) e per la cronica diffidenza al cambiamento della politica italiana. Il primo test fondamentale in tal senso sarà il ddl Delrio sulle province: un testo rivedibilissimo, come sa lo stesso Renzi (che ha chiesto alle opposizioni una sorta di compromesso), la cui approvazione potrebbe però essere il primo vero segnale del Governo ai cittadini. E anche per questo rischia di non passare, visto che nessuno ha voglia di regalare a Renzi la formidabile arma dell'abolizione delle province (abolizione che non c'è, in realtà) nella campagna elettorale per le Europee.

Poi sarà la volta del Jobs Act, o meglio, del piano per il lavoro al quale lavoreranno Poletti e Padoan. In tal senso il dialogo con le parti sociale è già avviato e in ogni caso la scelta di Poletti potrebbe essere una sorta di "garanzia a sinistra", ma oltre la complessità dell'operazione (sul "contratto di inserimento" ci sarà battaglia) il problema resta il solito: le risorse. Un discorso simile che andrebbe fatto anche per l'annunciato taglio del cuneo fiscale, che dovrebbe essere di 8 – 10 miliardi di euro con almeno 5 miliardi destinati ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, oppure per la decisione di ridurre del 10% l'Irap (servono altri due miliardi di euro), o per lo sblocco totale dei debiti della Pubblica Amministrazione o ancora per gli interventi pubblici in materia di edilizia e di bonus ambientali. Resta insomma la domanda che ha logorato Saccomanni: dove trovare i soldi?

Il riferimento principale è sempre al taglio della spesa pubblica, ovviamente. Il punto è che anche dal piano del commissario Cottarelli non dovrebbero arrivare più di 5 – 6 miliardi di euro di risparmi (e bisogna vedere cosa resterà dopo i passaggi parlamentari) e anche da una eventuale fulminea entrata in vigore delle riforme istituzionali non è lecito attendersi miracoli (poi sulla possibilità di utilizzare "risparmi futuri" ci sarebbe da discutere, così come ad onor del vero va detto che da una ristrutturazione del Senato non arriverebbe 1 miliardo di euro l'anno, visto che nel complesso Palazzo Madama costa poco più di 500 milioni e l'intera "struttura" non sarebbe smantellata). Stesso discorso sulla questione della Cassa Depositi e Prestiti, delle cui risorse non è possibile "abusare". Resta forse solo la disponibilità di 3 – 4 miliardi di euro dovuti all'uscita dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo.

Insomma, servono comunque interventi forti. Forse la revisione delle rendite finanziarie, forse una ristrutturazione del prelievo fiscale (anche se la chiusura "a priori" di Delrio a qualunque forma di tassazione patrimoniale resta emblematica). Difficile pensare di uscire dal pantano con i brodini caldi che hanno contraddistinto l'azione del Governo Letta. Serve una cura forte, servono idee radicali e non compromessi al ribasso. Serve forse la macchina da demolitore, non il bilancino del farmacista. Lo sa Renzi e lo sanno gli italiani.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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