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Opinioni

La favola dell’accordo già scritto fra Monti e Bersani

Il coro è praticamente unanime: dopo le elezioni Bersani e Monti governeranno insieme. Anche se il centrosinistra raggiungesse la maggioranza dei seggi al Senato. E nonostante l’enorme distanza sui programmi. Ma siamo davvero certi che sia così?
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Il mantra della campagna elettorale di centrodestra e "non allineati" è uno solo: "C'è un accordo tra Monti e Bersani. Governeranno insieme dopo le elezioni. Anche se il centrosinitra ottenesse la maggioranza al Senato". E via di questo passo, con suggestioni che rimandano a congiure, inciuci, accordi sottobanco, incontri più o meno segreti tra il Professore ed il segretario democratico. In un vortice che spesso finisce con l'omogeneizzare ogni cosa, rendendo "superflue" differenze essenziali e tralasciando ogni riferimento concreto alla "realtà dei fatti". Del resto, solo qualche settimana fa, erano tutti pronti a giurare che "l'accordo elettorale" tra Monti e Bersani fosse già stato siglato e che il PD si sarebbe presentato agli elettori accanto al rassicurante volto di Casini (e magari con l'investitura di Mario Monti a Palazzo Chigi, o con quella di Casini al Quirinale, di Fini agli esteri e via discorrendo). La realtà ha finora detto il contrario. Sia nella scelta delle alleanze elettorali, che nel dipanamento dei temi della campagna della coalizione di centrosinistra e di quella centrista.

Una colossale bufala insomma? Non proprio. È in effetti lampante che sia Mario Monti che Pier Luigi Bersani stiano rispettando una sorta di "patto di non belligeranza" in campagna elettorale, con toni reciprocamente "morbidi e concilianti". Così come è evidente che se il centrosinistra non dovesse ottenere una maggioranza qualificata al Senato la strada della convergenza al centro sarebbe l'unica eventualità sensata (anche considerando che molto difficilmente Rivoluzione Civile otterrà una rappresentanza adeguata a Palazzo Madama). Così come è chiaro che su alcuni provvedimenti (riforma del titolo IV e costi della politica) c'è una sorta di unità di intenti e non è escluso che si arrivi ad accordi "nel merito". Ma si tratta di considerazioni finanche banali, che non implicano necessariamente la presenza di patti di sangue o di tradimenti degli elettori. Altra e diversa cosa è la prospettiva politica a medio – lungo termine, sulla quale occorre in effetti riflettere con maggiore attenzione. Ne parla Giorgio Merlo su L'Unità:

Al di là dei sondaggi, probabilmente sarà necessario costruire una prospettiva politica che si regge su una stretta alleanza tra la sinistra democratica e riformista e il centro moderato e riformista. Perché questo, piaccia o non piaccia, sarà l'orizzonte entro il quale si definisce la futura coalizione di governo. […] L'incrocio e la collaborazione delle culture riformiste è sempre stata all'origine del buon governo e della politica di cambiamento. Una politica che è sempre stata ostacolata dal populismo e dalle spinte stremistiche, giustizialiste e massimaliste che, altrettanto da sempre, sono presenti nella politica italiana, tanto a destra quanto a sinistra.

E che questo sia l'orizzonte più invitante per larga parte dei democratici non è in discussione. Ma in una prospettiva necessariamente di medio – lungo periodo che, a meno di clamorose sorprese alle urne, non contempla l'opzione dei teorici della cospirazione: Bersani che molla Vendola per un accordicchio di governo con Monti, per farla breve. Per due ordini di ragione, una banalmente numerica, l'altra programmatica. Se infatti la coalizione di centrosinistra non dovesse raggiungere al Senato il numero minimo di seggi necessario a "garantire la governabilità", la soluzione che vedrebbe l'ingresso dei senatori centristi in luogo dei vendoliani potrebbe produrre un incremento minimo, un assurdo logico oltre che politico dunque. Per di più c'è la grande distanza sui temi in quella che Stefano Folli chiama la "complessa partita a scacchi" fra Monti e Bersani. Sul mercato del lavoro, per cominciare (con Fassina che sul punto dice "le nostre posizioni e quelle di Monti sono all'opposto"), ma anche sulla politica estera e sul sostegno ai ceti deboli. Per non parlare nemmeno della micro – svolta della campagna bersaniana, tesa a recuperare consensi a sinistra (si veda il caso F35) e magari ad emarginare Rivoluzione Civile di Ingroia, con l'obiettivo più o meno dichiarato, di sfruttare l'effetto del "voto utile", magari paventando un (im)possibile ritorno del Cavaliere. Se ne stanno accorgendo opinionisti ed elettori, a partire dalla decisione con la quale Bersani sta forzando sui temi "esodati", "disoccupazione" e salario minimo.

La verità è che questa campagna elettorale è nata vecchia. Vecchi i protagonisti, vecchie le forme della comunicazione (slogan e spot), vecchi gli strumenti (con una preminenza assoluta del tubo catodico). E soprattutto con la consapevolezza del vero rischio che corre il Paese: quello di una legislatura "ancora più tormentata e breve" della precedente. Frutto del Porcellum, della frammentazione della politica ed anche della sempiterna preferenza per le strategie e le alchimie elettorali rispetto alla riflessione programmatica ed "ideologica".

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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