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Dalle fake news su X al Palestinian Social Club: come Gaza ha cambiato i social

Sui social network la guerra a Gaza è iniziata con una valanga di falsi e disinformazione, ma si è trasformata presto nella più grande mobilitazione digitale della Gen Z, che ha usato le piattaforme come strumento di protesta globale.
A cura di Riccardo Luna
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Nessuno sa se e come finirà la tragedia di Gaza, ma sappiamo benissimo come è iniziata sui social network subito dopo il massacro del 7 ottobre 2023 che ha causato la morte di 859 civili israeliani e il sequestro di 251 ostaggi, scatenando una rappresaglia militare divenuta, da subito, lo sterminio di un popolo, o comunque lo si voglia chiamare. L’invasione più fotografata e documentata della storia dell’umanità è iniziata con un falso, anzi con una serie di falsi. Nelle ore immediatamente successive all’attacco terroristico di Hamas e mentre si preparava l’invasione di terra delle Forze armate israeliane (IDF), su Twitter/X sono state postate – e ricondivise e commentate – scene di un scontro a fuoco tratte da un videogame e fatte passare come immagini vere; una festa con fuochi d’artificio in Algeria spacciata per un bombardamento di un centro abitato palestinese; un video della guerra in Siria di tre anni prima riproposto come se fosse stato appena girato a Gaza; un altro di «un generale israeliano catturato da Hamas», visto quasi due milioni di volte prima che venisse accertato che l’episodio era assai datato e che il protagonista era un combattente separatista dell’Azerbaijan; infine, una foto di Cristiano Ronaldo con la bandiera palestinese (ma era invece un calciatore marocchino ai Mondiali del 2022).

Nei primi due giorni X venne letteralmente travolto dalla disinformazione al punto che l’amministratrice delegata Linda Iaccarino cancellò tutti gli impegni pubblici per occuparsi – disse – «della sicurezza della piattaforma»; mentre il piccolo team rimasto a moderare i contenuti diramò una nota per far sapere che stavano letteralmente «facendo il possibile». Per esempio, dissero, avevano sospeso un finto profilo del «Jerusalem Post» che sosteneva che il premier israeliano Benjamin Netanyahu fosse in ospedale. Troppo tardi, troppo poco. C

hiariamo: non che prima su Twitter non ci fossero tentativi di disinformazione. Ci sono sempre stati. Ma ormai su X è praticamente impossibile arginarli per due ragioni piuttosto ovvie. La prima è che il team che moderava i contenuti, cancellando quelli violenti o palesemente falsi, è stato decimato subito dopo l’arrivo di Elon Musk e in parte sostituito da improbabili community note, una specie di autogestione in cui si decide a maggioranza, nei commenti a un post, se una cosa è vera o falsa (tipo Ponzio Pilato che chiede alla folla: volete salvare Barabba o Gesù? Insomma, è la verità.dei fatti per alzata di mano).  La seconda è che gli utenti certificati, quelli di cui fidarsi al cento per cento, quelli con la famosa «spunta blu» accanto alla foto del profilo, non sono più quelli davvero autorevoli, tipo i capi di governo, i premi Nobel, le grandi testate internazionali; ma quelli che pagano 8 dollari al mese. Vuoi spacciare balle oppure opinioni farneticanti ma essere premiato dall’algoritmo di X ed essere visto da milioni di persone? Comprati la spunta blu, è in saldo. La credibilità social costa meno di trenta centesimi al giorno. Ma quanto vale?

X è così diventato come una piazza senza vigili e senza semafori, un luogo in cui se non vuoi venire travolto da automobili impazzite fai bene a levarti di torno e farlo in fretta. E gli altri social network, dopo la vittoria di Donald Trump e la fine della sostanzialmente inutile pratica del fact checking, non erano molto migliori. Ma c’era un’altra possibilità. Sì, certo, chiudere il profilo, o silenziarlo, e iniziare a postare altrove, chessò, su Mastodon, anche se lì non c’è praticamente nessuno, può dare l’illusione di fare la cosa giusta. E, come abbiamo visto, non è una scelta sbagliata in sé. Anzi, era e resta una cosa persino sensata, coerente, rassicurante: nel senso che ci rassicura, ci fa sentire migliori, dalla parte giusta della storia. Ci fa dire con orgoglio frasi tipo: «Io non partecipo a una partita truccata»; oppure «Vade retro algoritmo». Ma era e resta una scelta sostanzialmente inefficace: non cambia davvero le cose. Anzi, non fa nemmeno un graffio ai padroni delle piattaforme digitali e ai rispettivi sodali.

Come dimostra, al contrario, la drammatica vicenda di Gaza che entra in questo racconto perché – comunque finirà – è stata la dimostrazione che, nonostante tutto, è ancora possibile usare i social network contro il potere, usarli per difendere una causa ritenuta giusta e urgente che altri hanno fatto di tutto per oscurare; usarli – senza più esserne usati – non solo per dire no, che è comunque il primo passo da fare a volte; ma per organizzare, se non una rivoluzione, una qualche forma di resistenza. E in questo modo battere gli algoritmi di intelligenza artificiale che da anni decidono cosa farci vedere e cosa no.

La mobilitazione globale per Gaza è stata il più grande episodio di insubordinazione di massa della Storia, il momento in cui milioni di persone a un certo punto hanno detto a chi comanda: va bene tutto, vi abbiamo fatto passare tutto, l’ingordigia, la cupidigia, la tracotanza e la superficialità, ma ora basta. E lo hanno fatto non boicottando i social network ma grazie ai social network. Solo grazie alla rete infatti la tragedia di Gaza è diventata la battaglia di questa generazione di giovani, la cosiddetta Gen Z. Come il Vietnam e i diritti civili lo erano stati per i baby boomer; la caduta del Muro e la fine dell’apartheid per la Generazione X; e il cambiamento climatico per i Millennials. Certo, le schematizzazioni si perdono sempre qualcosa. Semplificano. Ma è indubbio che Gaza e la causa palestinese nel corso del 2024 sono diventati improvvisamente, imprevedibilmente, la bandiera di milioni di ragazzi. Il loro modo di dire che non solo la Palestina esiste, «deve esistere», ma anche loro esistono: hanno una testa, un cuore e davanti a un orrore senza fine hanno deciso di non voltarsi dall’altra parte. In tutto ciò ci saranno anche eccessi e ingenuità, anzi, non v’è dubbio che ci siano: ma non vi sembra meraviglioso che dei giovani si mobilitino non per un nuovo modello di sneakers o per un orologio visto nel video di un influencer su TikTok ma per quello che il professor Marco Tedesco, che insegna alla Columbia University, uno degli epicentri delle proteste universitarie ProPal negli Stati Uniti, ha definito semplicemente «un senso di umanità»? Non è quello che volevamo da loro? Che si mostrassero vivi? Beh, lo hanno fatto, lo stanno facendo. Come sempre nella storia dell’umanità, insomma, sono stati i giovani a indicarci la rotta. E questa non è soltanto una sensazione diffusa.

Qualcosa è andando storto di Riccardo Luna
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