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Il farmaco che cura la depressione con i funghi allucinogeni, lo psichiatra: “Può arrivare in tre anni”

Sta per partire uno studio italiano che studierà per la prima volta la psilocibina, una sostanza derivata da alcuni funghi allucinogeni, ma privata dei suoi effetti psichedelici. Abbiamo intervistato il Prof Giovanni Martinotti dell’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti dove verrà condotto lo studio.
Intervista a Prof. Giovanni Martinotti
Professore Ordinario di Psichiatria all'Università “Gabriele d'Annunzio” di Chieti
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A inizio luglio è arrivata l'approvazione dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) alla prima sperimentazione clinica in Italia della psilocibina nel trattamento della depressione resistente ai farmaci. Si tratta di una sostanza naturalmente psichedelica estratta da alcuni funghi allucinogeni, soprattutto quelli del genere Psilocybe.

Questo studio, che verrà condotto su 68 pazienti presso la Clinica Psichiatrica dell’ospedale di Chieti, a partire da settembre, rappresenta uno spartiacque importante nella ricerca sui potenziali usi terapeutici dei funghi allucinogeni. Per diversi motivi.

Per prima cosa è segno di un possibile superamento di quelle resistenze che per anni hanno bloccato la ricerca sul tema. Inoltre, nello studio – coordinato dall'Istituto superiore di sanità (Iss) e finanziato con i fondi del PNRR – verrà testata per la prima volta la psilocibina in una modalità inedita, ovvero privata dei suoi effetti psichedelici. Se i risultati saranno positivi, questo potrebbe aprire a importanti prospettive, anche nella comprensione stessa del meccanismo attrasse cui la psilocibina agiste sul nostro cervello. A Fanpage.it le ha spiegate Giovanni Martinotti, Professore Ordinario di Psichiatria all'Università “Gabriele d'Annunzio” e direttore della Clinica Psichiatrica dell’ospedale di Chieti.

Come è nato questo studio?

Da tempo all'Università di Chieti ci occupiamo di depressione resistente ai farmaci tradizionali, quindi eravamo interessati a testare la psilocibina in questa forma caratteristica, diversa da quella in cui è stata studiata finora, per verificare se può avere o meno un effetto sulla sintomatologia depressiva.

Perché diversa?

Perché in questo studio testeremo una forma di psilocibina privata dei suoi effetti psichedelici, che abbiamo annullato somministrando insieme ad essa un farmaco bloccante dell’effetto psichedelico. Il nostro obiettivo è vedere se ci saranno o meno gli stessi effetti sui sintomi depressivi già evidenziati da altri studi sulla psilocibina, ma senza i possibili effetti collaterali.

È la prima volta che viene studiata la psilocibina in questa versione?

Sì, esatto. Il nostro studio nasce come una sfida: siamo partiti dai risultati degli studi pregressi, inglesi, canadesi e svizzeri, condotti sull'argomento, ma abbiamo elaborato un protocollo specifico che lavora su questa tipologia di psilocibina, che abbiamo definito "non psichedelica", proprio perché non innesca il viaggio psichedelico tradizionalmente associato a questa sostanza.

Qual è il vostro obiettivo? 

Daremo non a tutti, ma a una parte dei pazienti questa psilocibina non psichedelica, e così potremo verificare se è la sostanza in sé a funzionare, a prescindere dall'esperienza psichedelica.

Se sarà così cosa potrebbe significare?

Questa è la grande sfida. Se noi dimostreremo che la psilocibina è efficace anche senza l'esperienza psichedelica, ecco che avremmo dimostrato che c'è un'efficacia intrinseca neurobiologica della molecola.

Quello sull'impiego terapeutico dei funghi allucinogeni è un tema molto divisivo. Oggi qual è la posizione dell'Italia?

I funghi allucinogeni vennero utilizzati in ambito medico negli Stati Uniti e in qualche altro Paese fino agli anni '70. Poi la ricerca scientifica in questo ambito si è fermata.

Perché questa chiusura improvvisa?

Perché si sono verificati effetti collaterali importanti, qualche caso di delirio e allucinazioni, isolati casi di morte per suicidio: tutto questo ha bloccato il movimento. Le autorità statunitensi hanno emesso dei divieti ufficiali alla ricerca in questo ambito, che hanno avuto chiaramente degli effetti anche nel resto del mondo, Italia compresa.

Di che effetti parla?

Si è creato un pregiudizio attorno a queste sostanze psicoattive che teoricamente possono essere abusate. L'effetto è stato non solo nell'opinione pubblica: per anni queste sostanze sono state bandite, tabellate e ne è stato impedito qualsiasi uso potenzialmente terapeutico.

Ma comunque avete ricevuto l'ok dall’Aifa, qualcosa è cambiato allora?

Il pregiudizio in parte è stato già superato perché ormai gli studi sull’argomento hanno dimostrato che la psilocibina funziona. Ora, se riuscissimo a dimostrare che non c'è neanche bisogno della parte psichedelica potremmo semplificare ancora di più le cose.

La psilocibina è diversa dagli antidepressivi che si usano oggi? 

Oggi abbiamo comunque delle buone molecole, ma questa sostanza potrebbe aprire delle prospettive importanti. Non si tratta di una sostanza che va assunta come una terapia quotidiana, ma in maniera estemporanea.

Cosa significa?

Gli studi condotti finora, comunque preliminari, perché effettuati su casistiche non enormi, suggeriscono che sono sufficienti una/due assunzioni della sostanza per produrre un importante miglioramento nei sintomi d'ansia e depressione.

Ma come riesce questa sostanza a lavorare sull'ansia e i sintomi depressivi? 

Ci sono due ipotesi. Dal punto di vista neurobiologico, la psilocibina induce a livello dei nostri neuroni delle modifiche specifiche. In questo modo si hanno delle interazioni con dei recettori che attivano quelli che potremmo definire dei secondi messaggeri intracellulari. Sono questi che produrrebbero un effetto antidepressivo.

La seconda?

C'è parallelamente un'ipotesi più psicologica che ricollega l'effetto antidepressivo alla stessa esperienza psichedelica. Chi sostiene questa ipotesi ritiene che il soggetto viva un effetto di iper consapevolezza e centralità tale che gli permette di trovare un senso alla propria esistenza. Secondo questa teoria sarebbe la stessa esperienza psichedelica a diventare trasformativa e quindi curativa.

Il vostro studio tende più alla prima ipotesi? 

Nessuno toglie che ci siano entrambi i meccanismi. Certo, il nostro studio chiarirà anche questo: se dimostreremo che senza la parte psichedelica l'effetto antidepressivo resiste, ecco che l'ipotesi primaria prenderebbe ancor più forza.

Se i risultati confermano l'effetto antidepressivo, è realistico che potremmo avere un farmaco con questo principio attivo a breve? 

Se tutto andrà bene, nel giro di sei mesi, un anno, dall'inizio dello studio avremmo i risultati preliminari. Poi, una volta confermati, dovremmo avere qualche azienda che investa nella produzione, ma non è impensabile che da qui a tre anni ci possono essere delle molecole che potremo iniziare a utilizzare per la produzione di un farmaco.

Le informazioni fornite su www.fanpage.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.
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