Aprono delle lattine di salmone vecchie di 40 anni, quello che trovano all’interno rivela qualcosa di inaspettato

Centinaia di lattine di salmone in scatola, conservate per più di 40 anni per il controllo qualità, sono diventate un’insospettabile fonte di informazioni sui cambiamenti a lungo termine nell’ecosistema marino: un team di ricercatori dell’Università di Washington ha deciso di aprirle, trovando al loro interno più di quanto ci si potesse aspettare.
Oltre salmone pescato, inscatolato e trattato termicamente per renderlo sicuro per il consumo umano, i filetti di pesce in scatola nascondevano un certo numero di anisakidi, i piccoli vermi (nematodi) della famiglia Anisakidae, di cui fanno parte gli Anisakis, i parassiti più altamente diffusi nelle specie ittiche di tutto il mondo. “I parassiti erano stati uccisi durante il trattamento termico del pesce e, se ingeriti, non avrebbero rappresentato alcun pericolo per il consumatore umano – hanno precisato i ricercatori, guidati da Natalie Mastick, ricercatrice post-dottorato presso il Peabody Museum of Natural History presso la Yale University che, durante il suo dottorato presso l’Università di Washington a Seattle, ha condotto l’indagine sul salmone in scatola – . Contare il numero di anisakidi è stato però un modo per valutare lo stato di salute dell’ecosistema marino”.
Anisakidi nelle vecchie scatolette di salmone
Per quanto possa sembrare inquietante, trovare parassiti come gli anisakidi nel pesce inscatolato oltre 40 anni fa ha rivolti scientifici rilevanti: i ricercatori dell’Università di Washington hanno analizzato 178 scatolette di salmone, che contenevano filetti di quattro diverse specie, tutte pescate in un periodo di 42 anni (dal 1979 al 2021) nel Golfo dell’Alaska e nella Baia di Bristol.
Contando il numero di anisakidi all’interno del pesce è emerso che il numero di parassiti per grammo di salmone è aumentato nel tempo solo in due delle quattro specie: nello specifico, i livelli anisakidi erano aumentati nel salmone keta (Oncorhynchus keta) e nel salmone rosa (Oncorhynchus gorbuscha), rimanendo invece invari nel salmone argentato (Oncorhynchus kisutch) e nel salmone rosso (Oncorhynchus nerka).
Secondo gli studiosi, la differenza nel carico di anisakidi rilevata nel tempo potrebbe essere dovuta a una diversa preferenza nella scelta delle prede da parte di ciascuna specie di salmone, mentre i livelli stabili potrebbero essere legati a differenze nelle specie di parassiti rilevate tra gli ospiti. “Vedere il loro numero aumentare nel tempo, come osservato nel salmone rosa e nel salmone keta, indica che questi parassiti sono riusciti a trovare i propri ospiti e a riprodursi – ha affermato la dottoressa Mastick – . Ciò potrebbe indicare un ecosistema stabile o in fase di recupero, con un numero sufficiente di ospiti adatti agli anisakidi”.
La presenza degli anisakidi nel salmone va quindi interpretato come un segnale che il pesce proviene da un ecosistema sano, essendo il ciclo vitale di questi parassiti molto complesso, che inizia quando le loro uova, da cui si sviluppano le larve, vengono mangiate dai piccoli invertebrati marini che formano il cosiddetto krill. “Il krill infetto, ad esempio, potrebbe essere mangiato da un piccolo pesce, che a sua volta viene mangiato da un pesce più grande, come il salmone – spiegano gli studiosi – . Il ciclo si chiude quando gli anisakidi finiscono nell’intestino di un mammifero marino, dove si riproducono: le uova vengono eliminate, attraverso le feci, per schiudersi e ricominciare il ciclo con una nuova generazione”.
Quando non è presente un ospite, come un mammifero marino, gli anisakidi non riescono a completare il loro ciclo vitale e, di conseguenza, la loro presenza diminuisce. Gli esseri umani non sono ospiti degli anisakidi ma possono contrarre l’infezione parassitaria (anisakidosi) mangiando pesci o molluschi crudi o poco cotti contenenti le larve vitali: queste larve non si sviluppano diventando parassiti adulti, per cui gli esseri umani non eliminano le uova né trasmettono il parassita.