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Guerra in Ucraina

Perché la pace tra Russia e Ucraina è ancora lontana: “Tra Kiev e Mosca distanza incolmabile”

Il vertice di Budapest tra Trump e Putin è saltato perché Mosca e Kiev non intendono ancora cedere su nulla. Putin punta a ridefinire l’architettura di sicurezza globale, Zelensky vuole cedere territori. E in questo contesto Washington ha preferito evitare un incontro senza risultati concreti.
Intervista a Marco Di Liddo
Direttore del CESI (Centro Studi Internazionali)
A cura di Davide Falcioni
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Le speranze che Ucraina e Russia potessero presto raggiungere un accordo per un cessate il fuoco sono svanite negli ultimi due giorni. Dopo mesi di apparente stallo sul fronte, ieri la Russia è tornata a colpire con forza, prendendo di mira infrastrutture energetiche e centri urbani ucraini: un’offensiva arrivata a poche ore dall’annullamento del vertice di Budapest, l’incontro ampiamente annunciato anche dalla Casa Bianca tra Vladimir Putin e Donald Trump che avrebbe dovuto segnare una svolta nei negoziati tra Kiev e Mosca.

Ebbene, quel vertice a casa di Orban non ci sarà, almeno per il momento: checché ne dica Donald Trump, infatti, la distanza tra le parti è ancora troppo ampia. Kiev chiede missili a lungo raggio per colpire in profondità la Russia e non intende cedere neppure un metro del suo territorio, mentre Mosca non retrocede di un passo dai suoi intenti originari: controllare tutti gli oblat ucraini attualmente occupati e soprattutto ridefinire l'architettura di sicurezza globale a proprio vantaggio. Trovare un compromesso appare impossibile, come ha confermato a Fanpage.it Marco Di Liddo, direttore del CESI (Centro Studi Internazionali).

Dottor Di Liddo, nei giorni scorsi la Russia ha nuovamente bombardato con intensità l’Ucraina e lo ha fatto poche ore dopo l’annullamento del vertice di Budapest tra Trump e Putin. Una coincidenza, o c’è dell’altro?

No, non credo sia una coincidenza. In realtà la dinamica della guerra in Ucraina segue una logica duplice: c’è il canale militare e c’è quello politico-diplomatico. Mosca li muove in parallelo. Le operazioni militari russe non si fermano o accelerano in funzione diretta dei negoziati: continuano sempre, perché fanno parte di una strategia di pressione costante. La Russia esercita una forza militare continua proprio per condizionare il tavolo politico, per arrivare a negoziare da una posizione di vantaggio.

Insomma, i raid delle scorse ore rispettano un modo di procedere sistematico, non legato a episodi specifici come quello di Budapest?

Esatto. La Russia agisce sempre con questa logica: tenere il livello di conflitto militare abbastanza alto da influenzare qualsiasi trattativa in corso o in prospettiva. È una strategia consolidata, che serve a dire "noi restiamo padroni del ritmo della guerra". È così che Mosca cerca di ottenere condizioni negoziali più favorevoli, oppure semplicemente di guadagnare tempo e terreno mentre il fronte politico internazionale si muove.

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Ma allora perché quell’incontro tra Trump e Putin è stato annullato, secondo lei?

Probabilmente perché gli Stati Uniti, dopo una fase preliminare di contatti, hanno capito che non ci sarebbero stati risultati concreti. Washington non voleva fare l’errore di sedersi a un tavolo per uscirne a mani vuote. Trump, in particolare, tiene molto alla propria immagine di "negoziatore risolutore". Dopo essersi intestato i progressi tra Israele e Hamas, non voleva esporsi a un fallimento diplomatico con Putin. L’impressione è che il divario tra le due parti fosse troppo ampio. A un certo punto, nelle discussioni preliminari, si è diffusa la voce che Putin chiedesse "solo l’oblast di Donetsk" come condizione per fermarsi. Ma la richiesta non era così semplice: il Cremlino voleva Donetsk insieme al riconoscimento formale dei territori già occupati, oltre a garanzie sulla non adesione dell’Ucraina alla NATO.

Trump però, sul piano mediatico, aveva mostrato di credere di poter replicare con Putin quanto accaduto tra Israele e Hamas, cioè ottenere almeno un cessate il fuoco. Perché non ci è riuscito?

Le situazioni sono radicalmente diverse. Israele, qualche settimana fa, aveva bisogno di una pausa: Netanyahu doveva mostrare al Paese un risultato concreto, come la liberazione di ostaggi. Anche Hamas, dal canto suo, necessitava di un momento di tregua per riorganizzarsi e gestire le tensioni interne, che stavano diventando pesanti.

Nel caso russo, invece, non c’è alcuna urgenza simile. Putin non ha necessità di fermarsi: farlo significherebbe riconoscere implicitamente i costi umani e politici del conflitto senza poter mostrare alcun guadagno tangibile. Al contrario, continuare la guerra serve a Mosca per mantenere la narrativa del "fronte patriottico contro l’Occidente". È una logica completamente diversa.

Secondo un rapporto pubblicato la scorsa settimana dall’Istituto Kiel, tra luglio e agosto il sostegno militare a Kiev è diminuito del 43% rispetto alla prima metà dell’anno. Cosa significa? La NATO sta spingendo l’Ucraina a un accordo? O la sta pian piano "abbandonando"?

Non è un vero abbandono, ma una fase di rallentamento. Le forniture di armi e aiuti finanziari subiscono fisiologicamente dei ritardi: tra l’approvazione dei pacchetti, la loro erogazione e la distribuzione concreta sul campo passano settimane, a volte mesi. C’è anche una novità strutturale: gli Stati Uniti hanno introdotto un nuovo meccanismo per i trasferimenti di armamenti, che prevede che siano la NATO o l’Unione Europea ad acquistare i sistemi dagli americani e poi a girarli a Kiev. Questo passaggio burocratico rende il processo più lento. Il problema è che l’Ucraina ha un fabbisogno di armi enorme, e ogni ritardo si traduce in maggiore vulnerabilità. Lo vediamo dal successo crescente dei bombardamenti russi: le infrastrutture ucraine sono sotto pressione, e la difesa aerea fatica a tenere il ritmo.

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Si parla spesso di "stanchezza occidentale". È un rischio reale, per l'Ucraina?

È reale, ma non ancora decisivo. Le leadership europee sanno che una concessione alla Russia avrebbe conseguenze gravissime. Cedere territori ucraini senza garanzie di sicurezza equivarrebbe a sancire una sconfitta dell’Occidente.

Dunque secondo lei non esiste, al momento, uno scenario realistico di pace?

Diciamo che non esiste un compromesso accettabile per entrambe le parti. L’investimento politico, economico e simbolico di Russia e Ucraina è ormai talmente alto che nessuno può permettersi di cedere. Kiev non può rinunciare ai propri territori senza garanzie concrete di difesa, e l’Occidente non può imporle un accordo che sembri una resa. Per contro, Mosca non accetterà mai di ritirarsi senza ottenere almeno un riconoscimento formale dei territori occupati.

Siamo di fronte a una guerra destinata a durare ancora a lungo, insomma…

Sì, senza dubbio. È una guerra lunga, perché è anche una guerra di sistema. La Russia non combatte solo per l’Ucraina: combatte per cambiare l’architettura di sicurezza europea e globale. L’Ucraina è lo strumento, non il fine. Per questo qualsiasi accordo che sembri una vittoria di Mosca avrebbe ripercussioni enormi: significherebbe che l’Occidente ha accettato una revisione dell’attuale "ordine" internazionale. Finché questo nodo non sarà sciolto – e non lo sarà a breve – non vedremo la fine della guerra.

In definitiva, quindi, non c’è ancora spazio per una "pace imperfetta"?

Non oggi. Le condizioni non sono mature, e la distanza politica è troppo ampia. Ogni proposta di compromesso viene subito letta come un cedimento.
L’unico margine realistico potrebbe aprirsi solo se, da un lato, l’Ucraina riuscisse a stabilizzare il fronte e, dall’altro, la Russia si trovasse di fronte a un costo interno insostenibile. Ma per ora né l’uno né l’altro scenario si intravede.

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