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Conflitto Israelo-Palestinese

“Niente è impossibile, perfino la pace”: parla Izzeldin Abuelaish, il medico di Gaza che non vuole odiare

Israele aveva già ucciso le sue tre figlie. Adesso, 22 altri suoi familiari. Ma non c’è odio nelle sue parole. Solo una “rabbia positiva”. Che lo spinge ad agire. Obiettivo: che il mondo costringa Israele alla fine dell’occupazione e a libere elezioni in una Palestina unita e indipendente. Perché “Hamas non rappresenta i palestinesi”.
Intervista a Izzeldin Abuelaish
Medico di Gaza, tre volte candidato al premio Nobel per la pace
A cura di Riccardo Amati
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“Ho perso le mie figlie, e nonostante la rabbia e lo sconcerto, so che non odierò”, aveva scritto dopo che un carro armato israeliano, quattordici anni fa a Gaza, gli aveva ucciso le tre ragazze e una nipote. Nelle ultime settimane i bombardamenti sulla striscia hanno massacrato altri 22 suoi familiari. Ma Izzeldin Abuelaish, il “medico di Gaza” non ha cambiato idea. “L’odio è una malattia, un veleno che ti immobilizza e non ti fa andare avanti”. La rabbia, invece, può essere “positiva”, se ti spinge ad agire per cambiare il contesto che ha generato il male e creare le condizioni per la pace. Perché “niente è impossibile nella vita, perfino la pace”.

Il professor Abuelaish oggi insegna Sanità pubblica e Politica della pace e dei conflitti alle università di Toronto e Manitoba, in Canada. Ma è nato nel campo profughi di Jabalia, a Gaza. Dove ha studiato nelle scuole locali per poi andare a laurearsi in ginecologia a Londra e a prendere un master in Politica sanitaria a Harvard. La sua casa rimane a Jabalia. Dove rientra più volte ogni anno e trascorre il maggior tempo possibile. Fu in quella casa che persero la vita le figlie. Le autorità israeliane dicono che il carro armato voleva colpire alcuni terroristi nelle vicinanze. In un primo momento avevano detto falsamente che il colpo fatale era arrivato da Hamas.

I familiari di Izzeldin uccisi nei giorni scorsi a Gaza
I familiari di Izzeldin uccisi nei giorni scorsi a Gaza

Izzeldin Abuelaish è stato il primo medico di Gaza a lavorare anche in ospedali israeliani. È da sempre impegnato a cercar di migliorare le relazioni israelo-palestinesi. Durante la guerra di Gaza del 2008-2009, bloccato nella Striscia, contribuiva con corrispondenze telefoniche alle news dell’emittente israeliana Canale 10. Un suo straziante collegamento avvenuto un attimo dopo la strage della sua famiglia fece il giro del mondo e lo rese famoso come “Il medico di Gaza”. È stato candidato tre volte al premio Nobel per la pace. Definisce “genocidio” l’azione israeliana delle ultime settimane. Ma condanna anche lo scempio del 7 ottobre. “Hamas non rappresenta il popolo palestinese”, dice. E chiede alla comunità internazionale di agire per permettere un cessate il fuoco “a lungo termine”, l’inizio di negoziati di pace e libere elezioni in una Palestina unita e indipendente dopo la fine dell’occupazione.

Raggiungiamo il “medico di Gaza” in videoconferenza nel suo ufficio all’università dove insegna.

le figlie di Izzeldin Abuelaish, medico di Gaza
le figlie di Izzeldin Abuelaish, medico di Gaza

Professor Abuelaish, questa tregua di quattro giorni fa ben sperare? O resterà solo una breve pausa, come ha detto Netanyahu?

Una tregua è quel che auspicavo da settimane. Per salvare vite. Come medico, quando vedo un mio paziente che sanguina e soffre per prima cosa fermo l’emorragia. La guerra non porta a niente. Ora è necessario un vero e proprio cessate il fuoco, a lungo termine. E gli ostaggi devono essere liberati, tutti: gli israeliani e anche i palestinesi incarcerati. Devono tornare tutti alle loro case. Intanto, spero che questi giorni di tregua siano implementati e diventino un’opportunità per calmare gli animi. Magari saranno l’inizio di una nuova fase. Nella quale si abbassi la tensione e si abbia il tempo di chiedersi perché sta succedendo tutto questo.

Sta succedendo perché Israele ha reagito all’attacco terroristico del 7 ottobre…

Ma il problema non nasce all’improvviso il 7 ottobre. È dal 1948 che ci sono azioni e reazioni. Continuamente. Oggi dobbiamo fermare la violenza e cogliere l’opportunità per evitare che le carneficine continuino a ripetersi.

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Come?

Israele deve porre fine all’occupazione dei nostri territori. L’occupazione è alla radice di tutto. E la sua fine è la chiave per la pace. Solo così palestinesi e israeliani saranno finalmente liberi e uguali. E potranno camminare fianco a fianco.

Israele vuole distruggere Hamas. È un obiettivo realistico?

Hamas non è un edificio. È un’ideologia. E si nutre proprio dell’occupazione e della violenza di Israele. La tragedia di Gaza rafforza Hamas. Questa guerra porta solo a un maggiore estremismo, ad altra violenza. Ma Hamas non rappresenta il popolo palestinese. Semmai può farlo l’Olp. Sono palestinese, la mia casa è a Gaza. Conosco bene la situazione. Hamas rappresenta solo una parte di noi. E questa guerra non è fra Israele e Hamas. È una guerra contro i palestinesi. In Cisgiordania non comanda Hamas. Eppure quasi ogni giorno ci sono vittime palestinesi. La pace la devono fare Israele e la Palestina. Non Israele e Hamas.

Ma la situazione oggi è questa. La tregua è frutto di un accordo tra Israele e Hamas…

Non dobbiamo lasciarci trascinare dalle emozioni negative, calmarci e avere lezioni libere e democratiche. In tutti i territori palestinesi: Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Per avere una leadership unica che possa governare una Palestina indipendente e unificata.

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E pensa che Israele vi farà fare le elezioni?

Finora lo ha impedito. È essenziale la pressione internazionale. L’Unione Europea per prima dovrebbe muoversi. I vostri politici devono impegnarsi per ottenere un cessate il fuoco e far esprimere il popolo palestinese alle urne. E le tante dimostrazioni nelle vostre città per la pace  e per la giustizia e la libertà in Palestina potrebbero servire a convincerli..

Lei crede davvero che tutto l’odio di queste ultime settimane lasci qualche speranza a un processo di pace?

Certo che sì. Dipende solo da noi. Da tutti noi. Possiamo farlo succedere. Cosa significa pace? Non solo l’assenza di conflitto ma anche libertà, assenza di sopraffazione, uguaglianza, dignità.  La pace è un modo di vivere. Ed è l’unico modo per vivere in armonia. Senza che uno si senta superiore a un altro. Non è mica una cosa irraggiungibile. Esistono già le risoluzioni dell’Onu che permetterebbero la pace. Basterebbe implementarle. E tutti noi dobbiamo far sentire la nostra voce per chiedere che non restino ancora solo sulla carta.

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Cosa la fa essere così positivo, nonostante tutto?

Credo che niente sia impossibile, finche si è vivi. Anche la pace. L’unica cosa che so essere impossibile è riportare in vita le mie figlie e i miei cari. Non è solo una questione di speranza. La parola giusta non è “speranza” ma  “fede”. Nel senso di fiducia. Si tratta di agire. Dobbiamo agire per realizzare la pace.

Ma ce l’avete in Israele un partner con cui parlare di pace?

Con l’attuale governo Netanyahu purtroppo no. Ancora, deve essere la comunità internazionale a far pressione. Solo così si potrà aprire un tavolo negoziale. Che è essenziale non solo per palestinesi e israeliani ma per il mondo intero.

Israele ha il diritto di esistere?

Certamente sì. Israele è riconosciuto dall’Olp. Ma non riconosce la Palestina. E voglio sottolineare che non puntiamo a dividere Israele, non ne rivendichiamo territori. Vogliamo solo vivere in pace come Paese vicino e indipendente.

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Lei per anni ha lavorato in un ospedale israeliano pur vivendo a Gaza. Che cosa ha imparato da quell’esperienza?

Credevo fermamente in quel progetto. Negli ospedali — in ogni ospedale, anche in Italia — tra i pazienti ci sono sempre persone di origine diversa. E sono trattati tutti nello stesso modo. Al di là della loro religione, della loro nazionalità o della loro etnia. La medicina ha valore umano. Unisce le persone che vengono curate, le rende uguali. E dà speranza, dà vita. Permette alle persone di sentirsi sullo stesso piano, di conoscere l’Altro. Questa in fondo è la mia missione nella vita. È il messaggio della medicina. E trovo raccapricciante che una volta uscite dall’ospedale, esseri umani tornino ad esser trattati diversamente a seconda della loro provenienza.

Il suo commento sulla situazione degli ospedali di Gaza?

È la situazione di tutta Gaza. Che ormai è solo fantasma. Senza vita. Nell’oscurità. Con tombe ovunque. La città ha sempre meno bambini. Vengono uccisi. L’esercito israeliano uccide la gioia della vita (la voce di Abuelaish è rotta e il medico appare commosso, ndr). Tutto questo sotto gli occhi del mondo.Serve pietà.

Riconosce ad Israele il diritto all’autodifesa?

Tutti hanno il diritto all’autodifesa. Ma allo stesso tempo tutti hanno il diritto alla dignità, alla libertà, alla vita. E i palestinesi ne sono deprivati. Per loro non esiste uguaglianza con gli altri esseri umani. Perché subiscono un’occupazione. È scandaloso, quindi, parlare — come fanno tanti  Stati occidentali,  Italia compresa — di diritto all’autodifesa da parte di Israele. In teoria ne ha diritto, certo. In base al diritto internazionale. Ma Israele lo vìola costantemente, il diritto internazionale.

Lei condanna anche il 7 ottobre?

Certo che condanno anche il 7 ottobre. È stato uno shock per il mondo intero. Condanno l’uccisione di ogni essere umano innocente. Palestinese, israeliano o di qualsiasi altra nazionalità. Ma la vendetta del governo di Israele, con oltre 14mila persone uccise a Gaza…

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Tra cui — ancora — componenti della sua famiglia…

Ventidue familiari massacrati Tra cui bambini. Sono seimila i bambini uccisi nelle scorse settimane dai bombardamenti israeliani. E non conto quelli che probabilmente sono ancora sotto le macerie. Non è guerra. Non sono nemmeno comuni omicidi. È genocidio. Come si possono uccidere i bambini? Sono la bellezza del mondo, il futuro, la speranza. I bambini devono essere protetti dal diritto internazionale.

Dopo l’uccisione delle sue tre figlie e di una nipote, lei scrisse un libro di grande successo, dal titolo “Non odierò” (Milano, 2011). Come fa a non odiare? Ha perdonato Israele?

Che vuol dire, in fondo, perdonare? Puoi perdonare solo qualcosa che ti è stato fatto da altri. Perché vuoi andare avanti, non vuoi portare con te nella vita il peso dell’odio.

Una grande scrittrice palestinese, Suad Hamiri, dice che per perdonare c’è bisogno di spazio, di respiro, di calma. Cose su cui il suo popolo non può attualmente contare.

Ci vuole tempo e calma, sì. Ma anche azione. Il perdono implica un rapporto a due: tra chi ha perpetrato il male e la vittima. Il colpevole deve riconoscere il male che ha fatto. E non farlo mai più. Sennò che senso ha il perdono?

Ma in realtà gli aggressori e in generale chi arreca danni al prossimo mica riconoscono le loro colpe. Trovano mille giustificazioni. Creano una narrativa che li assolva. Come la mettiamo, allora?

Se per paura o per amore del potere il colpevole non vuole ammettere la sua responsabilità, è difficile perdonarlo. Ma io che ho subito il danno non voglio esser definito “vittima”. Non voglio questo stigma. E non voglio dover perdonare me stesso per il mio odio, per la mia rabbia, la mia animosità. Perché l’odio è una malattia. È un veleno. Che distrugge chi ne soffre, chi se ne alimenta. È un male perpetrato contro se stessi.

Ma lei davvero non prova rabbia per l’uccisione dei suoi cari?

La rabbia va bene se è rabbia positiva.

Cosa intende per “rabbia positiva”?

Intendo la rabbia che ti motiva ad agire positivamente per cambiare il contesto in cui hai subìto il male. Ma deve essere una rabbia esente dall’odio. Perché l’odio è un peso immane che ti immobilizza. E ti rende cieco. Ti impedisce di funzionare.

Israele non si è mai assunto la responsabilità per l’uccisione delle sue figlie e sta ripetendo su vasta scala ciò che ha fatto a loro…

Israele ha agito e continua ad agire irresponsabilmente. Per paura e per egoismo ma soprattutto perché la comunità internazionale finora gli ha garantito l’impunità: il diritto internazionale per Israele non esiste.

In sintesi, come definirebbe quel che è successo nelle ultime settimane a Gaza?

È un genocidio. Ed è anche pulizia etnica. È un crimine contro l’umanità.

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