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Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente

La testimonianza dal West Bank di Mariam, attivista ISM: “Troppe perdite, non ci resta che filmare i crimini”

Intervista a Mariam, volontaria italiana dell’International Solidarity Movement, che in questo momento si trova in Cisgiordania: “Israele ha assunto questa forma di punizione collettiva, per cui se c’è un membro della famiglia che è attivista o è attivo in politica o contro l’occupazione, a pagarne le conseguenze è tutta la famiglia, se non l’intero villaggio”.
A cura di Redazione
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di Antonella Mautone 

Abbiamo sentito al telefono Mariam, italiana, membro del Ism, International Solidarity Movement, che da anni si batte contro l'occupazione israeliana usando il metodo della non violenza. Presente in molti paesi nel mondo, raduna volontari da inviare in Palestina e nelle terre occupate. "Siamo un movimento creato durante la Seconda Intifada da attivisti palestinesi internazionali e israeliani con l'intento di supportare la popular struggle, la resistenza non violenta palestinese. Dalla Seconda Intifada abbiamo lavorato con svariate comunità in Cisgiordania, a Gaza, finché non c'è stato poi il blocco nella Gerusalemme occupata, sotto la guida di quelli che erano i Popular Committees palestinesi, gruppi di attivisti locali che si sono formati in ogni villaggio per resistere all'occupazione della Palestina. Loro organizzavano proteste e durante il primo decennio degli anni Duemila c'erano molte azioni sia contro il muro che contro le colonie".

Cos’è cambiato dopo il 7 ottobre?

C'è stata una fortissima repressione da parte dello Stato di Israele sugli attivisti palestinesi. Già prima negli anni, durante le proteste hanno ammazzato migliaia di palestinesi, moltissimi sono in carcere, in veri e propri campi di concentramento. Oltretutto lo Stato di Israele ha assunto questa forma di punizione collettiva, per cui se c'è un membro della famiglia che è attivista o è attivo in politica o contro l'occupazione, a pagarne le conseguenze è tutta la famiglia, se non l'intero villaggio: arrivano i soldati e chiudono le porte in modo che non si possa entrare e uscire, in ogni caso i movimenti sono fortemente limitati. Le cose sono peggiorate tantissimo da quando c'è stato, se così lo vogliamo chiamare, il cessate fuoco a gennaio e il recente attacco all’Iran.

Qual è ora lo stato della resistenza palestinese?

Purtroppo al momento non esiste molta resistenza non violenta: le perdite sono state talmente tante, le conseguenze così terribili che al momento è difficile resistere in qualunque modo. Quello che le comunità stanno facendo, soprattutto nelle aree in cui ci siamo noi, è rimanere nella propria terra perché c'è, attraverso vari provvedimenti, una spinta alla pulizia etnica da parte dell'occupante.

Dove sta operando il vostro movimento?

Adesso siamo principalmente nell'area sud della Cisgiordania, a Masafer Yatta (lo stesso luogo dov’è ambientato il documentario premio Oscar No other land ndr) e anche nella Valle del Giordano, dove ci sono più che altro comunità rurali, alcune sono di beduini e in moltissimi di questi villaggi ci sono quelle che lo Stato di Israele ha dichiarato essere delle aree militari, aree di addestramento per l'esercito. Stanno cercando di mandare via la popolazione civile palestinese, mentre ovviamente i coloni israeliani possono rimanere: soprattutto dal 7 ottobre, abbiamo visto che in entrambe le aree ci sono delle colonie, delle piccole cittadine e ogni tanto ci sono alcuni coloni che escono e mettono ad esempio, una tenda, una bandiera, un piccolo recinto, una macchina, un caravan, per segnare il territorio, una sorta di avamposto. Questi “avamposti” sono illegali anche per le leggi israeliane locali. Abbiamo visto come se ne sono formati tantissimi dal 7 ottobre, si stanno espandendo e sono ovviamente protetti sia dall'esercito che dalla polizia. Perché ovviamente tutte le azioni, tutti gli attacchi dei coloni avvengono sotto la protezione dell’esercito e della polizia israeliana e purtroppo la stampa si focalizza molto su quelle che sono le azioni dei coloni, senza evidenziare che questo è tutto un sistema di colonizzazione delle terre palestinesi che è supportato dalle forze di sicurezza dall'esercito, dalla polizia e fondamentalmente dallo Stato israeliano. Quindi questi avamposti, queste colonie possono rimanere in queste aree militari mentre i civili palestinesi che vivono in queste terre da generazioni devono andare via.

Dopo il 7 ottobre come sta operando il vostro movimento?

Da quando è iniziato abbiamo a che fare con crimini e violenze che sono commesse sia dai coloni che dall'esercito e dalla polizia, e abbiamo avuto anche svariati membri che sono stati attaccati, feriti e uccisi, come nel caso di Aysenur

(Ayşenur Ezgi Eygi, 26enne turco-americana, uccisa da un colpo alla testa di un cecchino israeliano mentre protestava contro gli insediamenti illegali di Avitar, sul picco di Mount Sbeih a Beita, a sud di Nablus. Oltre a lei, nel 2002 anche Rachel Corrie, un’altra attivista americana, fu schiacciata da un buldozer israeliano mentre stava protestando per fermare la demolizione di una casa palestinese, ndr).

Secondo lei queste morti hanno cambiato negli Stati Uniti la percezione di quello che sta accadendo alla popolazione palestinese?

Una delle ragioni per cui noi siamo invitati qui dalle comunità e dagli attivisti palestinesi è che, purtroppo, provenendo soprattutto da una società occidentale fondamentalmente razzista, le voci e quello che succede a persone predominantemente bianche, o comunque con passaporti occidentali, fa più notizia di quello che accade ai palestinesi e agli altri gruppi etnici. Prima di Aysenur, nei tre anni precedenti alla sua uccisione sono stati ammazzati altri diciotto palestinesi sulle stesse colline dove è stata uccisa lei e ovviamente questo non è arrivato al pubblico, soprattutto quello occidentale. Invece noi speriamo che il suo sacrificio, come quello di Rachel Corrie, o quello di Tom Hurndall, un altro attivista inglese che è stato ucciso a Gaza poco dopo di lei, che il messaggio arrivi comunque alla popolazione che si è mobilitata tantissimo da quando è iniziato il genocidio, per mettere sempre più pressione ai governi. In generale non abbiamo molta fiducia nelle azioni dei governi occidentali. Rachel Corrie non ha mai avuto giustizia per quello che le è successo.

Come vengono preparati i volontari che partono per venire lì?

Abbiamo molti gruppi che lavorano in diversi paesi in Europa e negli Stati Uniti. C’è un processo di screening iniziale, svariati training prima di arrivare e poi un training qui sul territorio di almeno un paio di giorni. La cosa più importante per noi è che emergano le storie di quello che succede qui alle comunità: qualche settimana fa ci sono stati degli sviluppi che a noi preoccupano molto. Nella Valle della Giordania, questo è successo purtroppo anche in passato, le comunità sono state costrette ad andare via: in una di quelle dove noi siamo presenti, nella Valle della Giordania del Nord, sono arrivati dei coloni, oltretutto mi sembra che facciano parte di questo gruppo che si chiama Hilltop Youth. Sono molto violenti e ci hanno minacciato: è stato detto ad una delle famiglie che deve andare via entro qualche giorno e quindi abbiamo paura che lascino le loro terre di fronte alla violenza, di fronte alle minacce. Episodi come questi sono avvenuti ripetutamente sia nella Valle della Giordania che a Masafer Yatta.

Di quante persone parliamo?

A Masafer Yatta c'è questa area militare che si chiama Firing Zone 918, sono quasi 3000 persone, 12 comunità sparse e comunque sono tutte aree desertiche, quindi comunità molto piccole e separate tra loro: l'occupazione ha fatto in modo di dividere queste comunità ancora di più, sia per come sono state programmate le colonie, sia per come sono gli avamposti. Stanno crescendo in modo da occupare tutto o comunque fanno in modo che i palestinesi non possano più usare quelle che sono le vie principali per passare, per andare da una comunità all'altra. La Jordan Valley è grandissima, è tutta l'area che costeggia, diciamo, la Giordania da nord a sud, è area C, quindi è sotto completa occupazione militare.

C’è un altro sviluppo a Masafer Yatta: qualche settimana fa c'è stato un ulteriore decreto militare, oltretutto una cosa semi segreta, quindi non si sa bene che cosa ci sia scritto dentro, per cui a causa della guerra hanno dichiarato che adesso è necessario che queste siano aree dedicate all’addestramento dell'esercito. Quindi hanno praticamente dato carta bianca per rifiutare tutte le richieste che i palestinesi hanno fatto per costruire, che di solito non vengono accettate perché appunto questa è area C: l'esercito e lo Stato israeliano non accettano queste richieste per costruire case, e anche tutte le cause in tribunale che erano state presentate contro le demolizioni saranno tutte annullate, quindi quello che i residenti adesso si aspettano è un'ondata di demolizioni.

Già un villaggio dove noi siamo stati per parecchio tempo qualche anno fa, che si chiama Khalet Al-Daba'a è stato praticamente raso al suolo. Sono rimaste tre case, credo che prima fossero una ventina. Noi abbiamo avuto due attivisti che sono stati arrestati e deportati da quel posto, due-tre settimane fa. Quindi la situazione è veramente disastrosa in queste aree.

Che cosa fate quando vi trovate di fronte a una demolizione di una casa?

In passato i palestinesi si organizzavano per cercare di resistere, sedendosi di fronte alle case o rimanendo dentro. Anche noi insieme ai palestinesi ci sedevamo di fronte ai bulldozer quando arrivavano, un po' come ha fatto anche Corrie. Adesso danno qualche minuto alle famiglie per evacuare la casa, chiudono l'area e buttano giù. Al momento purtroppo non c'è più alcuna forma di resistenza, resti lì e filmi quello che sta succedendo.

Filmare resta l'unica cosa da fare in questo momento, mostrare al mondo quello che sta accadendo?

Lo diciamo sempre, la nostra arma sono le telecamere, anche se è rischioso per noi e per i palestinesi: filmare e documentare in modo che queste cose, si sappiano, anche quando molti compagni palestinesi e antisionisti israeliani che vivono in queste aree da tanto tempo conoscono il nome di molti coloni. Quindi continuare a documentare questi crimini è quello che noi cerchiamo di fare il più possibile.

Secondo lei adesso sta effettivamente iniziando a cambiare qualcosa proprio grazie alla diffusione delle immagini su quello che sta succedendo lì?

Le immagini devono continuare a uscire. Io penso che ci sia stato un cambiamento, lo vedo anche tra le persone che conosco, nell'opinione pubblica, soprattutto per le immagini orrifiche che stanno uscendo da Gaza. Anche se i governi fondamentalmente non stanno ancora facendo niente. Sinceramente non sappiamo che cosa servirà per cambiare rotta. Immagino che non cambieranno le cose fino a quando non saranno intaccati a tal punto gli interessi economici che i governi non avranno più interesse a mantenere operazioni qui.

Quindi lei afferma che il popolo può cambiare qualcosa attraverso il boicottaggio, non attraverso le manifestazioni in piazza.

Anche tutte queste proteste che ci sono state non so quanto abbiano cambiato le cose, ma sicuramente ci deve essere più pressione dal basso. Diciamo che in passato le cose le hanno sempre cambiate i popoli, ci sono segnali che l'opinione pubblica è cambiata già da quando è iniziato il genocidio a Gaza. Quindi bisogna continuare a lavorare da quel punto di vista e poi cercare di mettere pressione per aumentare le sanzioni. Queste sono tutte cose piccole, perché ovviamente si tratta di un problema sistemico: non è la sanzione sul singolo colono o sul soldato a fare la differenza. Però sono piccoli passi, soprattutto il boicottaggio economico e politico. Quello deve essere lo scopo del nostro lavoro e delle comunità esterne. E ovviamente far venire più gente possibile qui: noi abbiamo una chiamata, i palestinesi ci hanno chiesto e chiedono più attivisti qui sul territorio, soprattutto ora. Quindi chi può, deve venire qui e cercare di unirsi alla lotta.

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