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Il racconto delle proteste pro Palestina alla Columbia di New York: “Non ci fermeremo, non avremo pace”

Oltre cento studenti arrestati alla Columbia University di New York dopo aver innalzato un accampamento pro Palestina all’interno del Campus. Vi raccontiamo come sono nate le proteste e perché non si fermeranno così facilmente.
A cura di Sacha Biazzo
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Entrare alla Columbia University di New York, una delle principali università americane, è diventata un’impresa. La rettrice, Nemat Shafik, in una mail diramata all’una di notte di lunedì 22 aprile ha sconsigliato a tutti gli studenti di entrare nel campus, annunciando che per quel giorno le lezioni si sarebbero tenute a distanza. L’ingresso principale è stato chiuso, e a presidiare i due varchi secondari ancora funzionanti sono stati schierati 111 addetti alla sicurezza privati, il doppio del personale normalmente in servizio. Solo chi ha il badge universitario è ammesso all’interno. L’ingresso dell’università è presidiato notte e giorno da decine di camionette della polizia. Questo da quando giovedì 18 aprile la polizia in tenuta antisommossa ha fatto irruzione nel campus arrestando 108 studenti che avevano organizzato un accampamento di solidarietà alla causa palestinese. Un episodio del genere alla Columbia non succedeva dal 1968, durante le proteste contro la guerra in Vietnam.

Negli ultimi giorni si sono intensificate le manifestazioni in altri atenei degli Stati Uniti. La mattina di lunedì 22 aprile a Yale, un’altra delle otto Ivy League, come vengono chiamate le più prestigiose e costose università private del nord est degli Usa, sono state arrestate circa 60 persone, di cui 47 studenti che avevano realizzato un accampamento simile a quello della Columbia. In serata un centinaio di studenti si è riversato nella Gould Plaza all’ingresso della New York University, di fronte a una cinquantina di agenti. Secondo il Washington Square News, tutti i manifestanti che si trovavano nella piazza sono stati ammanettati e arrestati. Sull’onda delle proteste a Columbia sono sorti accampamenti anche nelle università della zona di Boston, tra cui Tufts, Emerson e il rinomato Massachusetts Institute of Technology. Si segnalano proteste anche in altre parti del paese come a Berkeley, University of California e alla University of Michigan.

Come è cresciuta la protesta degli studenti alla Columbia

L’escalation di manifestazioni è cominciata mercoledì 17 aprile quando la rettrice della Columbia University, Nemat Shafik, è stata chiamata a rispondere di fronte alla commissione per l’istruzione della Camera, guidata dai repubblicani, in merito alle misure intraprese per contrastare atteggiamenti antisemiti all’interno dell’università dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre e i successivi bombardamenti israeliani a Gaza. Shafik è solo l’ultima rettrice chiamata di fronte alla Commissione. Prima di lei c’era stato il caso di Harvard, Mit e University of Pennsylvania. Audizioni che sono costate le dimissioni di Claudine Gay, rettrice di Harvard, e di Elizabeth Magill della University of Pennsylvania, accusate di non aver saputo gestire l’antisemitismo nei loro atenei. Shafik ha provato a difendersi ricordando di aver preso provvedimenti sul tema come la sospensione di 15 studenti e due gruppi studenteschi, aperto indagini su due professori e aver licenziato un terzo, il controverso Mohamed Abdou, che ad ottobre aveva scritto in un post su Facebook: “Sì, sono con la muqawamah (la resistenza), che si tratti di Hamas, Hezbollah e Jihad islamica, ma fino a un certo punto.” Su di lui la rettrice ha detto in audizione: “Non lavorerà mai più alla Columbia.”

Mentre la rettrice era a Washington, però, dalle prime ore del mattino centinaia di studenti della Columbia si sono riuniti sul prato di fronte alla biblioteca Butler, allestendo il "Gaza Solidarity Encampment", un accampamento di decine tende con cartelloni e bandiere a sostegno della Palestina. Alla guida del movimento ci sono principalmente tre gruppi studenteschi: Columbia University Apartheid Divest (CUAD), Students for Justice in Palestine (SJP) e Jewish Voice for Peace (JVP), gli ultimi due sono quelli già sospesi nei mesi scorsi. L’accampamento è sorto proprio in concomitanza con la preparazione del più importante evento dell’anno, il Graduation Day, l’appuntamento di consegna delle lauree che si terrà il 15 maggio e che porterà nel campus migliaia di persone tra professori, studenti e familiari. Le ditte addette al montaggio delle strutture erano già al lavoro all’interno dell'istituto quando gli studenti hanno occupato uno dei giardini dove dovrebbero sedere gli ospiti. La risposta dell’università non si è fatta attendere.

“Questa mattina ho dovuto prendere una decisione che speravo non fosse mai necessaria”, aveva annunciato Shafik in una mail a tutti gli studenti proprio mentre la polizia in tenuta antisommossa faceva irruzione nel campus intorno alle 13 di giovedì 18 aprile. L’NYPD, la polizia di New York, chiamata dalla rettrice, ha circondato l’accampamento e intimato agli studenti di sgomberare l’area. Di fronte al loro rifiuto gli agenti hanno cominciato ad ammanettare i presenti con fascette di plastica per poi trasportarli di peso nei pulman parcheggiati sulla 114esima strada. In tutto sono state arrestate 108 persone che sono state rilasciate la sera stessa, non prima di essere sospese dall’università, perdendo quindi la possibilità di accedere non solo al campus, ma anche ai dormitori e alle mense. Come nel caso di Maryam, una studentessa del primo anno del Barnard College che ha raccontato su X che dopo essere stata rilasciata è rimasta fuori dal suo dormitorio. “Sono le 2 del mattino. Sono stata costretta a rimanere fuori dai cancelli di Barnard per un'ora intera in attesa che qualcuno mi facesse entrare, mentre la sicurezza pubblica di Barnard mi ha detto che stavano ‘andando oltre il consentito" prendendo in considerazione la possibilità di farmi entrare nella mia stanza per 15 minuti. Ho fatto le valigie alla rinfusa e me ne sono andata.”

Mentre erano ancora in corso le operazioni di sgombero del primo accampamento, gli studenti rimasti hanno occupato il giardino adiacente, ricostruendo nei giorni seguenti l’accampamento con le stesse modalità di quello precedente. “Non stiamo facendo negoziati e non ci tireremo indietro. Tutto il mondo ha visto come è stato disastroso il primo sgombero, se lo faranno una seconda volta, torneremo di nuovo,” mi ha raccontato B. uno studente di 23 anni del master della Columbia School of Social Work, con il volto coperto dalla kefiah. È uno dei tanti studenti arrestati e sospesi, che ha deciso di tornare all’accampamento, nonostante la possibilità di essere espulso e la paura di perdere la sua borsa di studio. Una retta universitaria qui si aggira intorno ai 60mila dollari e può arrivare fino a 80 o 100mila dollari considerando anche le spese accessorie. “Non ho intenzione di comportarmi come se non avessi paura, ma credo che la fiducia travolgente del movimento controbilanci la paura. Io provengo da un ambiente working class, sono stato abbastanza fortunato da entrare in un posto come questo, ma mi chiedo: che cosa rappresenta questo posto?” B. è cresciuto nel vicino New Jersey ma la sua famiglia viene da Monterrey nel nord del Messico. Mi racconta che uno dei motivi del successo di questa protesta è proprio la presenza di tanti studenti internazionali, molti provenienti dal Medio Oriente, alcuni direttamente dalla Palestina o con familiari in Palestina, che hanno storie anche personali legate ai bombardamenti su Gaza. Anche per questo dice: “Non ci fermeremo finché non avremo raggiunto l'obiettivo. Non ci fermeremo finché non avremo raggiunto le nostre richieste.”

Perché gli studenti protestano

L’obiettivo principale della protesta è chiedere il “divestment,” ossia l’interruzione di ogni rapporto economico dell’università con società collegate direttamente o indirettamente ad Israele. “Disclose, divest, we will not stop, we will not rest,” “Svelare, disinvestire, non ci fermeremo, non avremo pace” è uno degli slogan più usati dal movimento. Oltre al contestato “From the river to the sea, Palestine will be free,” “Dal fiume al mare la Palestina sarà libera”, tacciato di antisemitismo in quanto inneggerebbe all’annullamento dello stato di Israele.

Columbia University è un colosso con un bilancio di quasi 19 miliardi di dollari con 6 miliardi di introiti, di cui il 12%, pari a 774 milioni derivante solo dagli investimenti e il 9%, 562 milioni, da donazioni. Ha fatto scalpore l’annuncio dato a Fox News il 22 aprile dal miliardario ebreo Robert Kraft, Ceo della Kraft Group e proprietario dei New England Patriots, ex studente Columbia, di voler interrompere le donazioni all’università. Il suo annuncio segue quello di un altro ex studente e miliardario, Leon Cooperman, Ceo della società di investimenti Omega Advisors, che aveva preso una posizione del genere già ad ottobre 2023. Secondo il New York Post, anche Len Blavatnik, socio di maggioranza della Warner Music Group, starebbe considerando di interrompere le donazioni. Secondo alcune stime non confermate, le donazione dei tre imprenditori ammonterebbero a circa 100 milioni di dollari.

"Posso dire con sicurezza che Robert Kraft non rappresenta il mio ebraismo. È un ideologo di estrema destra che sposa posizioni con cui non sono assolutamente d'accordo,” mi racconta Ilian, uno studente di 23 anni del Jewish Theological Seminary, mentre con altre decine di studenti ebrei celebra all’interno dell’accampamento il Passover, una delle festività ebraiche più partecipate nelle comunità americane. Il gruppo si è riunito insieme ad alcuni professori per celebrare il loro rituale durante l’occupazione con preghiere e cibo kosher e dimostrare che il clima di antisemitismo denunciato dagli esponenti repubblicani e da figure di spicco del mondo ebraico non corrisponde a verità.

Il rabbino Elie Buechler, dell'Orthodox Union Jewish Learning Initiative della Columbia University, domenica 21 aprile ha inviato un messaggio WhatsApp a un gruppo di circa 300 studenti ebrei, per lo più ortodossi, raccomandando loro di tornare a casa e di rimanervi. "È chiaro che la Pubblica Sicurezza della Columbia University e la Polizia di New York non possono garantire la sicurezza degli studenti ebrei […] mi addolora profondamente dire che vi consiglio vivamente di tornare a casa il prima possibile e di rimanerci fino a quando la situazione all'interno e intorno al campus non sarà migliorata drasticamente", ha scritto nel messaggio il rabbino Buechler.

Anche in considerazione di questi avvertimenti e per gestire i delicati rapporti con la comunità ebraica, l’università ha diramato un comunicato in cui si sanciva che fino alla fine dell’anno scolastico le lezioni si terranno in maniera ibrida. Gli studenti quindi non sono obbligati ad entrare nel campus per partecipare alle lezioni. Ognuna di queste decisioni è la risposta a una delicata dinamica di responsabilità rispetto a quello che potrebbe accadere. “Ho più paura di ciò che viene fatto in nome della mia sicurezza di studente ebreo più che della mia sicurezza in sè,” ha detto Ilan. “L'idea che stiamo chiudendo i cancelli, che stiamo censurando gli studenti, licenziando docenti, stabilendo un nuovo paradigma universitario simile a quello del maccartismo in nome della sicurezza degli ebrei non mette gli studenti ebrei al sicuro. È questa la vera minaccia.”

La rettrice Shafik si trova in una situazione altamente complicata a cui al momento non sembrano esserci soluzioni all’orizzonte. Soprattutto dopo che nel pomeriggio del 22 aprile un centinaio di docenti della Columbia hanno sfilato nel campus indossando le toghe usate durante le cerimonie per esprimere solidarietà agli studenti coinvolti nelle proteste a favore della Palestina. “Penso che l'università possa esistere solo se ha il mandato dei suoi studenti e dei suoi docenti, e non ce l'ha,” ha chiosato Ilan.

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