“Cinque neonati in un’incubatrice, a Gaza terapie intensive al collasso”: il racconto di una pediatra MSF

A Gaza la lotta per la sopravvivenza non risparmia neanche i neonati. Mentre sulla Striscia piovono missili e bombe, e mentre la gestione degli aiuti umanitari da parte di Israele e USA affama deliberatamente centinaia di migliaia di palestinesi, persino nei reparti di maternità delle poche strutture sanitarie rimaste in piedi bambini e bambine appena venuti al mondo devono ingaggiare una vera e propria battaglia per non morire. Ne sa qualcosa Joanne Perry, dottoressa di Medici Senza Frontiere (MSF), che dall’ospedale materno-infantile di Al-Helou, racconta la sua esperienza all’interno dell’unità di terapia intensiva neonatale.

"La scorsa settimana siamo arrivati a dover mettere 5 neonati nella stessa incubatrice. Inizialmente erano in 2, per necessità di spazio, nonostante si trattasse di una situazione già di per sé inaccettabile e scioccante da vedere. Poi da 2 sono diventati 3, fino ad arrivare a 5 neonati in una sola incubatrice. A causa degli attacchi agli ospedali non ne abbiamo a sufficienza". Oggi, infatti, nel nord di Gaza rimangono appena 36 incubatrici, rispetto alle 126 disponibili prima di ottobre 2023. "Quando più neonati condividono un’incubatrice, il rischio di infezioni aumenta enormemente. Il loro sistema immunitario, in particolare dei neonati prematuri, non è ancora sviluppato".

Le nascite premature sono un'eccezione sempre meno rara a Gaza a causa delle condizioni di salute delle madri. "È la mia terza volta a Gaza in un anno – spiega ancora la dottoressa Perry – ma stavolta la situazione è diversa: le donne incinte sono gravemente sottopeso e soffrono di anemia severa. Questi fattori possono causare serie complicazioni in gravidanza, tra cui il parto prematuro. A ciò si aggiunge che molte di loro vivono in condizioni terribili: rifugi sovraffollati o tende, spesso senza accesso all’acqua pulita per lavarsi. Molte non ricevono cure prenatali perché le strutture sanitarie funzionano a intermittenza e la popolazione è continuamente costretta a spostarsi. Questo significa che le gravidanze a rischio spesso non vengono rilevate finché non si presentano complicazioni, che spesso si scoprono troppo tardi".
"Assistiamo a nascite premature e curiamo bambini con problemi di salute che, con un minimo monitoraggio, si sarebbero potuti prevenire. Anche solo diagnosticare in tempo una polmonite o un’anomalia cardiaca permetterebbe di intervenire in tempo con i farmaci giusti. Ma nell’unità di terapia intensiva neonatale non abbiamo né ecografi, né macchinari per radiografie, e spesso nemmeno i test del sangue più basilari". Il problema più grave, spiega ancora la pediatra, rimane la mancanza di carburante, dal momento che tutti gli ospedali di Gaza dipendono da generatori a diesel. "La carenza di carburante provoca continue interruzioni di corrente che, per i neonati che dipendono dall’ossigeno, possono essere fatali. Ad esempio, una delle scorse notti abbiamo perso un neonato che avrebbe potuto sopravvivere, ma l’ossigeno è venuto a mancare a causa di un blackout e il piccolo non ce l’ha fatta".
Anche il latte artificiale è sempre sul punto di esaurirsi. "Nel nostro ospedale – aggiunge Joanne Perry – promuoviamo l’allattamento al seno e ne siamo orgogliosi, ma in queste condizioni molte madri non riescono a restare con i propri bambini per nutrirli a intervalli di poche ore: spesso devono occuparsi del resto della famiglia, o non hanno soldi per i trasporti e sono costrette a camminare per ore. È straziante. Avere un bambino dovrebbe essere un momento di grande gioia e speranza, ma, per tante famiglie a Gaza, oggi non lo è più, e diventa un momento sovrastato da forte stress e paura".