“A Gaza la mortalità infantile è aumentata di almeno 10 volte”: i dati di MSF sul genocidio

Il tasso di mortalità nella Striscia di Gaza tra ottobre 2023 e marzo 2025 è risultato almeno cinque volte superiore rispetto a quello stimato prima dell’inizio della guerra. Tra i bambini sotto i cinque anni, la mortalità è risultata dieci volte più alta, e sei volte tra i neonati sotto il mese di vita. È quanto emerge da una nuova indagine retrospettiva condotta da Medici Senza Frontiere nella Striscia di Gaza prendendo in esame un campione composto da oltre 2.500 persone tra membri dello staff MSF e loro familiari.
I numeri, raccolti da Epicentre – il centro di ricerca epidemiologica di MSF – mostrano che oltre il 2% delle persone coinvolte è deceduto e il 7% è rimasto ferito. In tre casi su quattro, la causa della morte è stata un trauma da guerra, in particolare esplosioni. Ma è nei dettagli che si misura l’abisso: il 48% delle vittime da esplosione erano bambini, e il 40% aveva meno di dieci anni. L’indice di mortalità generale si attesta a 0,41 decessi al giorno ogni 10.000 persone, ma arriva a 0,70 tra i bambini sotto i 5 anni – una soglia che, in termini epidemiologici, indica una crisi umanitaria acuta.
Eppure, si tratta di un campione che, per quanto coinvolto in pieno nel conflitto, può essere considerato relativamente più "protetto": lo staff sanitario, infatti, ha spesso accesso più diretto a strutture mediche, informazioni, reti di supporto. Per questo, i dati raccolti non solo confermano l’attendibilità delle stime diffuse dal ministero della Salute palestinese ma suggeriscono che la realtà nel resto della popolazione, priva di qualsiasi accesso all’assistenza, è molto peggiore.
Anche i decessi non direttamente causati da traumi di guerra sono in aumento: malattie croniche non curate, mancanza di farmaci, infezioni, disidratazione, malnutrizione. Tre persone su quattro con patologie croniche hanno dovuto interrompere le cure. Parallelamente, la distruzione delle abitazioni ha raggiunto livelli totali: solo il 2% delle famiglie ha una casa rimasta intatta, mentre il 59% l’ha persa del tutto.
A fronte di questi dati, e degli oltre 57mila morti già registrati secondo il ministero della Salute di Gaza – un numero che secondo MSF e recenti studi pubblicati su The Lancet è certamente sottostimato – abbiamo chiesto a Silvia Mancini, epidemiologa e responsabile affari umanitari di MSF, di aiutarci a interpretare i risultati dello studio: che cosa ci dicono davvero questi numeri? Quanto sono rappresentativi? Quali sono le principali cause di morte indiretta? E cosa accade oggi, dopo che lo studio si è chiuso, nei mesi più recenti segnati da attacchi agli aiuti umanitari e dall’ulteriore blocco delle evacuazioni?

Il vostro studio prende in esame oltre 2.500 persone tra membri dello staff MSF e loro familiari, una fascia di popolazione che, presumibilmente, ha un miglior accesso alle cure. Che idea possiamo farci quindi di cosa sta succedendo al resto della popolazione di Gaza?
È una domanda importante perché ci permette di contestualizzare i dati. I risultati che abbiamo raccolto si riferiscono a oltre 400 famiglie del nostro staff, per un totale di più di 2.500 persone. Si tratta di un campione significativo per condurre un’indagine epidemiologica, ma è importante sottolineare che non è rappresentativo dell’intera popolazione di Gaza. Anzi, probabilmente riflette una condizione relativamente più "protetta".
Parliamo di persone che, pur vivendo nelle stesse condizioni drammatiche del resto della popolazione – più del 90% ha subito danni totali o parziali alla propria abitazione – hanno avuto comunque un accesso alle cure relativamente "migliore". Alcuni riuscivano a raggiungere i nostri ospedali o a ricevere informazioni più facilmente e questo ha inciso ad esempio sulla possibilità di essere curati in caso di ferite: l’86% delle persone ferite ha ricevuto un trattamento. È un dato alto, che ci fa pensare che nella popolazione generale la percentuale di chi riceve assistenza sia molto più bassa.
Perciò, se già in questo gruppo la mortalità è quintuplicata rispetto al periodo pre-bellico, e decuplicata tra i bambini sotto i 5 anni, possiamo ragionevolmente ipotizzare che nel resto della popolazione – che ha avuto ancora meno accesso a cure mediche, rifugi e aiuti – l’impatto sia persino più grave. Parliamo, purtroppo, di una crisi umanitaria fuori scala.
Il vostro studio evidenzia anche un aumento dei decessi non direttamente causati da ferite di guerra. Quali sono le principali cause di morte indiretta e come si sono evolute nel tempo?
Oltre il 75% dei decessi che abbiamo registrato sono legati a traumi da guerra, in particolare a esplosioni. Ma col passare dei mesi, la proporzione delle morti non traumatiche è cresciuta, ed è un segnale molto preoccupante. Parliamo di decessi causati da malattie croniche come diabete, ipertensione, malattie cardiovascolari, cancro. In condizioni normali queste patologie richiedono farmaci e monitoraggio regolare. A Gaza, il sistema sanitario è stato sistematicamente distrutto o reso inaccessibile, gli ospedali sono stati bombardati, i farmaci non arrivano più, l’elettricità è intermittente o assente, le condizioni igieniche sono drammatiche. In queste condizioni, anche una malattia gestibile diventa potenzialmente fatale.
Poi ci sono le morti legate alla malnutrizione, alla disidratazione, a malattie infettive che si diffondono in contesti di sovraffollamento, scarsa igiene e mancanza di acqua potabile. Teniamo conto che, anche in popolazioni sane, mesi di deprivazione possono portare a un rapido peggioramento della salute generale, soprattutto tra i bambini e gli anziani.
Secondo i dati ufficiali del Ministero della Salute palestinese, i morti sarebbero oggi oltre 57.000, ma alcuni mettono in dubbio l’affidabilità di questi numeri. Cosa ne pensa MSF? Sono sovrastimati, o invece sottostimati?
Da epidemiologa, posso dirle che sì, siamo convinti che questi numeri siano sottostimati per la semplice ragione che il sistema di registrazione è stato completamente travolto. I registri ufficiali si basano perlopiù su segnalazioni ospedaliere e su quelle provenienti dalla comunità. Ma quante persone sono rimaste sepolte sotto le macerie e non sono mai state identificate? Quante sono morte nella comunità, lontano da un ospedale? E quanti ospedali hanno smesso di inviare dati?
Un recente studio pubblicato su The Lancet, una delle riviste più autorevoli nel nostro campo, ha utilizzato tecniche di "cattura e ricattura" per stimare la mortalità reale. Confrontando diverse fonti – dati ministeriali, registri civili, necrologi, indagini tra la popolazione – hanno stimato che già entro giugno 2024 i morti potessero essere circa 65.000, mentre i dati ufficiali si fermavano allora a circa 45.000. Una differenza enorme. E questo studio si fermava un anno fa. Oggi, possiamo solo immaginare quanto più alto sia il numero reale. Noi riteniamo quindi che quei dati ufficiali non vadano screditati, ma interpretati con attenzione.

Lo studio si ferma al marzo 2025, e quindi non include i mesi più recenti, né i massacri quotidiani delle persone in fila per ricevere gli aiuti. Cosa possiamo dire di questa fase più recente, da aprile in poi?
Sì, il nostro studio si è concluso a marzo 2025, e quindi non comprende l’effetto del blocco quasi totale degli aiuti successivo. Tuttavia, sulla base delle testimonianze quotidiane del nostro staff, possiamo dire che la situazione è ulteriormente peggiorata. In quei mesi abbiamo assistito a una nuova escalation: le distribuzioni di aiuti alimentari sono diventate vere e proprie trappole mortali. Migliaia di persone si sono accalcate in pochi punti di consegna, molti dei quali controllati militarmente, circondati da filo spinato e postazioni di tiro. Solo in un mese, abbiamo documentato nei nostri ospedali più di 500 persone uccise e oltre 4.000 ferite mentre cercavano semplicemente un sacco di farina.
Parliamo di violazioni sistematiche del diritto internazionale umanitario, che prevede che gli aiuti umanitari debbano essere distribuiti in modo indipendente, imparziale e sicuro. Ma qui gli aiuti sono diventati un’arma di controllo, un elemento della strategia bellica. E tutto questo avviene nonostante risoluzioni internazionali (come la 2286 dell’ONU) e gli ordini della Corte Internazionale di Giustizia che impongono ad Israele di garantire il flusso degli aiuti e di prevenire il rischio di genocidio.
La distribuzione degli aiuti sembra dunque diventare essa stessa un meccanismo di guerra. È corretto?
Purtroppo sì. È fondamentale denunciare il modo in cui la distribuzione degli aiuti è stata trasformata in uno strumento di controllo e punizione. Il piano congiunto di Israele e Stati Uniti – la cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation – prevede la distribuzione del cibo solo in quattro punti. Questi luoghi sono sotto il controllo militare, circondati da filo spinato, postazioni armate. Le persone si ammassano lì nella speranza di ricevere un sacco di farina, ma spesso vengono respinte o addirittura colpite.
È notizia di due sere fa: gli Stati Uniti hanno annunciato sanzioni contro Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi, che nei suoi rapporti fa anche riferimento a dati e fonti di Ong come MSF. Che lettura ne dà?
È preoccupante che un rappresentante delle Nazioni Unite, il cui lavoro si fonda su analisi documentate, dati verificabili e testimonianze raccolte sul campo, possa essere oggetto di misure restrittive. Questo solleva interrogativi sul valore riconosciuto alla trasparenza, alla documentazione indipendente e al principio di accountability a livello internazionale. Come MSF, non assumiamo posizioni ideologiche: il nostro operato si fonda su dati clinici, testimonianze dirette e osservazioni sul terreno. Limitare o ostacolare l’accesso o la diffusione di questi elementi rischia di compromettere la possibilità di raccontare ciò che accade, di garantire trasparenza e di documentare le conseguenze dei conflitti sulla popolazione civile.