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Per chi parla davvero l‘attivismo social?

Spesso raccontato come un approdo alla rappresentanza diretta per le comunità oppresse, in realtà le piattaforme di oggi incoraggiano anzitutto a sostituirsi alle minoranze per dimostrare appartenenze elitarie. Un estratto da La correzione del mondo (Einaudi Stile Libero).
A cura di Redazione Cultura
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La statua di Cristoforo Colombo abbattuta dai manifestanti (Stephen Maturen/Getty Images)
La statua di Cristoforo Colombo abbattuta dai manifestanti (Stephen Maturen/Getty Images)

Vi presentiamo un estratto tratto da "La correzione del mondo", libro del giornalista Davide Piacenza – autore della newsletter CultureWars -, pubblicato da Einaudi, che, come si legge nel sottotitolo, parla di "Cancel culture, politicamente corretto e i nuovi fantasmi della società frammentata". L'autore ne parlerà lunedì 9 ottobre alla Feltrinelli di Napoli (piazza dei Martiri), assieme al direttore di Fanpage.it, Francesco Cancellato.

Una delle conseguenze dirette dell’architettura generale dell’attivismo algoritmico è che a parlare delle minoranze, a definirle con precisione, e a indicare e farsi garanti delle loro volontà e dei loro desideri non sono quasi mai le minoranze stesse. Nell’atto costitutivo del mandarinismo della corretta politica c’è l’intestazione del ruolo di portavoce dei gruppi emarginati, che spesso diventa qualcosa di molto simile a una sistematica sostituzione. Non significa che questo iter preveda necessariamente una volontà malevola di fondo: ci si può accostare alla militanza politica «in conto terzi» per tenaci e sincere convinzioni personali, ottenere i primi feedback positivi da membri del gruppo di riferimento e iniziare a considerarsi espressione di quel gruppo; su questo, ancora una volta, le reti sociali online giocano un ruolo decisivo. Di solito chi difende la sua attività di rappresentante si appella a un fatto presentato come incontestabile: i social media hanno permesso ai gruppi sociali storicamente emarginati di parlare direttamente al potere, trovando un canale di ascolto per le loro istanze.

È un argomento importante e con parti di verità, ma che si infrange contro i dati di realtà delle piattaforme. Un rilevamento del Pew Research Center ha registrato che gli utenti di Twitter degli Stati Uniti sono statisticamente più giovani, benestanti e istruiti della popolazione generale: tra gli intervistati, il 60 per cento era di fede democratica, e il 41 per cento guadagnava piuù di settantacinquemila dollari annui. Senza contare che l’80 per cento del gargantuesco totale dei tweet analizzati risultava prodotto da un 10 per cento di profili power user, che mostravano una predilezione per i contenuti politici. Se si aggiunge che meno di un quarto degli statunitensi dichiara di essere su Twitter (il 23 per cento, per la precisione), e che secondo un sondaggio del 2020 il 64 per cento degli statunitensi non utilizza i social media per sostenere cause politiche e sociali, il mito della rappresentanza diretta inizia a scricchiolare.

Ciò è vero anzitutto guardando a una delle comunità più attive e citate in quest’ottica della piattaforma: il cosiddetto «Black Twitter», la community di utenza afroamericana che si occupa di problemi sociali e di rappresentanza dei neri negli Stati Uniti (quella da cui, come abbiamo visto, proviene la call-out culture che oggi qualcuno, spesso cambiandone arbitrariamente i contorni, chiama cancel culture). I profili più popolari del Black Twitter sono dichiaratamente a favore del movimento Defund the police, che vuole ripensare l’apparato di pubblica sicurezza smantellando il sistema di fondi pubblici alla polizia americana, che ancora oggi dà prova di discriminazione e profilazione razziale a danno dei neri d’America. Eppure, la Black America non è d’accordo col Black Twitter: solo il 18 per cento degli afroamericani vivrebbe in un Paese con una polizia fortemente ridimensionata o assente, e addirittura il 58 per cento si dichiara del tutto contrario al movimento.

Questo accade perché, come ha spiegato in un saggio il filosofo nigerianoamericano Olúfémi Táíwò, gli appartenenti a una minoranza che sono più attivi sui social media sono inadatti a rappresentarla in toto: "Da un punto di vista sociale, i ‘piuù colpiti' dalle ingiustizie sociali che associamo a identità politicamente rilevanti come genere, classe, razza e nazionalità hanno una probabilità sproporzionata di trovarsi in carcere, sottoccupati o far parte del 44 per cento della popolazione mondiale senza accesso a Internet – e quindi tanto a essere lasciati fuori dalle stanze del potere, quanto al venire ignorati dalle persone che le abitano". Gli individui che riescono a passare oltre questi filtri sociali intrisi di discriminazione finiscono per non somigliare a chi è rimasto al di qua del guado. O, per dirla con le parole del filosofo: "Hanno più probabilità di trovarsi nella stanza [del potere relativo] proprio per i modi in cui sono sistematicamente diversi da (e quindi potenzialmente non rappresentativi di) quelle stesse persone che gli viene chiesto di rappresentare nella stanza".

Certo, rimane indubbio che una persona afroamericana sarà mediamente piuù in grado di identificare e discutere le istanze degli afroamericani. Ma l’errore a monte è considerare una qualunque minoranza come un blocco monolitico di persone che, in quanto unite in vario grado da certe caratteristiche e determinate storie di oppressione, avranno giocoforza le stesse prospettive sulla società, o bisogni almeno assimilabili. La realtà racconta un’altra storia, e tante buone intenzioni nate guardando all’orizzonte dell’«inclusione» ci si sono schiantate contro: «Latinx», negli Stati Uniti, è un termine inclusivo introdotto nei contesti accademici e di attivismo per riferirsi col genere neutro ai latinos (aggirando cosiì il femminile latina e il maschile latino) che negli ultimi anni ha goduto di una moderata diffusione, finendo anche in contesti di comunicazione politica ufficiale dei democratici. Peccato che ai diretti interessati, i latinoamericani di diverse generazioni, il termine non piaccia neanche un po’: un sondaggio nazionale realizzato alla fine del 2021 sulla popolazione di origine ispanica ha trovato che soltanto il 2 per cento degli intervistati lo usava per riferirsi a sé stesso o a suoi conoscenti, mentre ben il 40 per cento si sentiva persino infastidito o offeso dalla sua introduzione. Lo stesso è accaduto con «Filipinx», neologismo inserito nella comunicazione ufficiale dell’ultimo Comic-con di San Diego, il più grande evento internazionale dei fumetti, per riferirsi alle persone originarie delle Filippine. L’intento era ovviamente benintenzionato, ma i filippini non hanno gradito: secondo molti di loro segnala un approccio paternalistico e occidente-centrico all’inclusione (un commento virale apparso su Twitter  spiegava che «le persone che dicono “Filipinx” sono solo filippino-americani che pensano che mangiare Lumpia al Jollibee sia ciò che ti rende filippino»). Quando alla fine del 2021 la popolare piattaforma di controllo ortografico Grammarly ha aggiornato le sue correzioni automatiche per i termini riferiti allo schiavismo, proponendo tra l’altro di usare «schiavista» in luogo del precedente «proprietario di schiavi», la storica afroamericana Elise A. Mitchell si è lamentata, spiegando che questa cosmesi linguistica, per quanto benevola, rischiava di far passare sotto silenzio il fatto che al tempo la legge americana permetteva la proprietà di altri esseri umani.

Lontano dalle nicchie online baciate dai like, le minoranze non sono un unico grande blocco di persone definibili in modo univoco dallo stesso termine o da una singola caratteristica, sovente individuata da chi non ne fa parte: e d’altronde la «diversità» – oggi diventata piuù che altro una bandierina virtuosa da sventolare davanti ai propri follower e clienti – in teoria sarebbe esattamente questo. Un giusto sforzo contemporaneo vuole mettere in soffitta insulti e stigmi di derivazione antica favorendo la denominazione di sex worker per chi decide di lavorare nel mondo del sesso vendendo le proprie prestazioni, anche su piattaforme online. Ma è un movimento che spesso non tiene conto del fatto che oggi, in Italia e nel mondo, una larghissima parte di sex worker – si parla di decine di milioni di persone – non ha potuto decidere nulla: sono le vittime della tratta di esseri umani, donne migranti che hanno subito e subiscono violenze quotidiane, a cui ragionevolmente interessa poco un dibattito limitato alla definizione più empowering della loro tragedia. La ragazza minorenne venduta a un trafficante di esseri umani in Nigeria e finita in stato di schiavitù su uno stradone della periferia italiana (una figura purtroppo ancora abbondantemente abituale nel nostro Paese) ha poco o nulla da spartire con una influencer che racconta le insidie e i compromessi del lavoro sessuale su OnlyFans, e non è giusto e nemmeno accettabile che la seconda possa parlare al posto della prima, facendone – chissà come – le veci.

È proprio in quest’ottica che la sinistra che ha a cuore le cause degli svantaggiati dovrebbe ribellarsi, con un moto di attivismo e consapevole dignità: nel mondo-palcoscenico di oggi, spesso, sapere quali termini ed espressioni linguistiche preferire, e renderlo la consuetudine fine a sé stessa di una clava da tirare in testa al primo reo che passa, equivale in tutto e per tutto al saper stare a tavola durante un inaccessibile banchetto dell’altissima borghesia, in cui al posto dell’argenteria di cui dimostrarsi avvezzi all’uso ci sono lessici impiegati da nicchie privilegiate che vanno dalle università della Ivy League agli uffici marketing delle grandi corporation. Nel contesto odierno ogni settimana qualcuno di relativamente ricco e influente si inventa una nuova regola per la disposizione della forchettina del dolce – può essere la necessità di ribattezzare la Stella di Natale col suo nome indigeno messicano, oppure l’urgenza di inchiodare alle sue responsabilità un personaggio dei cartoni animati – e una sfilza di suoi aspiranti commensali si dimenano per mostrarsi in grado di sbocconcellare una tarte tatin al suo fianco. Quando assume questa forma di comodo – non la sola esistente, per fortuna, ma diffusa capillarmente dall’architettura stessa delle piattaforme digitali – la correttezza politica virale testimonia anzitutto la premura di segnalare un’appartenenza di classe elitaria.

Di Davide Piacenza

(©️ 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino)

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