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La Ferrante parteciperà allo ‘Strega’ su richiesta di Saviano

In uno scambio di lettere aperte su Repubblica, Elena Ferrante, celebrata autrice di Narrativa, grande outsider della scena culturale (giacché non compare mai in pubblico) ha accettato la proposta di Roberto Saviano di partecipare al premio Strega. A detta di entrambi è un modo per “sparigliare le carte”, ma servirà?
A cura di Luca Marangolo
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Dalle autorevoli colonne di Repubblica negli ultimi due giorni c’è stato un botta e risposta da tenere in considerazione. Il giornalista, personaggio pubblico e autore di libri di inchiesta Roberto Saviano (era necessaria la presentazione?) ha “sfidato” Elena Ferrante a partecipare al Premio Strega, il riconoscimento letterario “più importante” che c’è nel nostro paese.

E’ una storia istruttiva, perché Saviano dice di sperare che la candidatura di Elena Ferrante –scrittrice di grande successo critico ma lontana dalle dinamiche editoriali di basso livello cui arrivano i colossi del libro ad ogni edizione dello Strega – possa cambiare lo status quo di un premio, come lo Strega che è tutto in mano “agli editori”. La Ferrante, dalle colonne dello stesso giornale, ha accettato la sfida, parteciperà alla kermesse, lasciando trasparire, però, nella sua risposta, una certa disillusione sull’effetto che questa iniziativa possa  effettivamente smuovere le acque.

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Il lettore perdonerà l’uso di tutte queste virgolette, ma in questo caso ci sembravano necessarie: perché “sfidare” Elena Ferrante – che è una delle autrici italiane più tradotte e stimate oltreoceano, come ormai sanno anche i sassi – a partecipare ad un premio che, dato lo status della scrittrice, dovrebbe essere un po’ come casa sua? L’uscita di un libro di Busi (o di Moresco, o di Siti) dovrebbe essere un punto di riferimento per la letteratura italiana; tantissimi talenti ormai forti  e consolidati della scrittura dovrebbero avere un consueto spazio allo Strega: Michela Murgia, Michele Mari, Nicola Lagioia e via dicendo.

E invece non è così. Usiamo le virgolette perché oramai tempo immemore che il premio Strega è “il premio più importante”, è ormai da tempo che ogni anno, poco prima che inizi la kermesse, il discorso è occupato dalle ragioni di una polemica che si ripete stancamente, che si ripete senza modo di trovare una via di uscita sensata.

È così può venire l’agile sospetto che la “sfida” lanciata da Roberto Saviano ad Elena Ferrante non sia che, da un lato, un comodo esercizio di visibilità mediatica, come ha scritto Pino Corrias di recente ma, al di là del processo alle intenzioni, non sia altro che la più chiara, netta ed evidente manifestazione di un paradosso che non può non colpire.

Il paradosso è il seguente: il premio Strega è talmente chiacchierato, è talmente dichiaratamente falso nelle sue dinamiche e nei meccanismi che lo strutturano, che lo si può tranquillamente e serenamente dichiarare nella pubblica piazza mediatica.

Anzi, si potrebbe addirittura arrivare a dire che, ormai, la totale falsità dei giochi rappresenta un’immancabile nota di colore che serve quasi a tenere viva l’attenzione su qualcosa che altrimenti sarebbe ingrigita immancabilmente.

Ma al di là del bisogno di portare all’estremo le strutture di questo paradosso, appare intollerabile, assolutamente intollerabile, se si osserva con un minimo di distacco e con poco coinvolgimento verso i fatti, che si continui a parlare del Premio come del segreto di Pulcinella. Quel tono, quel sottinteso che costantemente accompagna riflessioni di questo genere,  che implica “vabè, tanto è tutto deciso”, è un tono di rassegnazione che non si può tollerare, perché è troppo rassicurante per il letterato di turno che si trova a dover esprimere un giudizio nei confronti dello stato di cose.

In realtà gli scrittori potrebbero fare molto per cambiare le cose: potrebbero per cominciare decidere di non partecipare, potrebbero addirittura, volendo, istituire un loro premio, stabilendo in base a competenze e criteri reali chi merita di vincere, potrebbero, insomma, boicottare il premio e boicottare i meccanismi di  baratto editoriale, come fece Pasolini a suo tempo.

La rinuncia all’idea che in Italia non possa esserci un premio letterario che giudica oggettivamente le opere in base alla qualità (lo Strega, almeno in teoria, dovrebbe essere l’apoteosi di ciò per il modo in cui si vota), corrisponde in pratica all’ammissione che la letteratura, come pratica e come realtà culturale, è in verità solo un “salotto”, uno dei tanti salotti; la cui presenza o assenza non fa alcuna differenza. Lo scrittore si sente “portato”, “condotto”, attraverso un processo editoriale che, inevitabilmente, come è normale che sia, dopo la pubblicazione, deve passare attraverso la “vetrina” dello Strega: se è l’anno buono per il suo Editore, il suo libro, vincendo, durerà qualche mese in più in scaffale ed è tutto quello che è in gioco. Troppo, però, per arrischiarsi ed alzare la voce.

Cosa ne è stato del fatto che il Premio, in passato, ha scelto alcuni dei classici che effettivamente sono durati fin qui nella letteratura del Novecento? Cosa ne è stato dell’idea che uno scrittore, quando si mette al lavoro, lo fa per durare ben più di qualche mese negli scaffali dei Mega Store?

Appare ovvio che questo atteggiamento di resa generale verso lo stato di cose è la causa dell’attuale confino della letteratura dal dibattito culturale Italiano, e non una conseguenza. Se ha una voce per parlare, la letteratura dovrebbe prenderselo, questo spazio, per il bene di tutti. Ad un’azione del genere del resto è demandata la sua stessa ragione di esistere: incidere sulla realtà o scomparire, rivendicare una radicalità giusta, o tacere.

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