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KILL BILLY: “La Ragazza dello Sputnik” di Murakami

Le Istruzioni per una nuova libreria di Raffaella R. Ferré: perché leggere il romanzo dell’autore giapponese, edito in Italia da Einaudi.
A cura di Raffaella Ferré
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Ho letto per la prima volta "La ragazza dello Sputnik" di Haruki Murakami (ed. Einaudi) durante un viaggio in treno, un intercity scelto per risparmiare sì, ma anche perché mi piace allungare i tempi del ritorno in città. Era maggio e piccoli avvenimenti che oggi mi sembrano del tutto trascurabili, tenevano banco, primo tra tutti la scrittura del mio nuovo romanzo, poi la laurea, e poi ancora certe vicende sentimentali che non ero ancora solita accantonare da un lato dicendomi che ci avrei pensato il giorno appresso. Ora, queste informazioni potrebbero sembrarvi poco interessanti ai fini della scelta di leggere o meno questo libro, ma ascoltatemi: credo nell'esistenza di un Dio dei romanzi che ti mette in mano il libro giusto nel momento adatto proprio perché mentre la mia vita procedeva lenta come l'intercity Torino Napoli, io presi dalla borsa "La ragazza dello Sputnik" e cominciai a leggerlo.

Non amo molto gli autori giapponesi: è la sorte che credo capiti a chiunque abbia vissuto l'exploit di Banana Yoshimoto.
Mi spiego: ho amato Kitchen negli anni '90, ho letto tutte le raccolte di racconti e i romanzi lungo gli anni prima del Duemila, e ho finito detestando cordialmente qualsiasi personaggio adolescente che abbia doti paranormali e solitudini familiari alle spalle nel corso del primo decennio del nuovo millennio. Murakami, invece, mi sorprese: nonostante una certa traccia di adolescenza fosse riscontrabile anche in Sumire, la protagonista del romanzo, nonostante un che di paranormale fosse presente anche nella sua sparizione, c'era una dimensione terrena – non cinica, certo, ma piuttosto concreta – che consentiva la prosecuzione della storia. Ho letto molte recensioni su "La ragazza dello Sputnik" e sembrano tutte ruotare intorno a due punti:

1) la composizione triangolare della stessa vicenda, con gli avvenimenti che per Sumire significano una cosa e hanno certe conseguenze, per Myu delle altre e per il professorino senza nome che ci racconta l'intera storia, altre ancora;
2) il finale, che ovviamente non svelerò qui, ma ho scoperto essere interpretato in maniera diversa dai lettori, suppongo a seconda del loro spirito.

Per quanto mi riguarda, invece: a farmi riflettere è stata la componente legata ai sentimenti e la storia mi è sempre parsa una ottima metafora di quanto l'amore sia praticamente scindibile dalla vita, e quanto alla fine di una storia l'unica possibilità di sua salvaguardia sia nella sua negazione.
Una nota di merito va, infine, al traduttore, Giorgio Amitrano.

Incipit:
"Nella primavera del suo venticinquesimo anno, Sumire si innamorò per la prima volta nella vita. Fu un amore travolgente come un tornado che avanza inarrestabile su una grande pianura. Spazzò via ogni cosa, trascinando in un vortice, lacerando e facendo a pezzi tutto ciò che trovò sulla sua strada, e dietro non si lasciò nulla. Poi, senza aver perso nemmeno un grado della forza, attraversò il Pacifico, distrusse senza pietà Angkor Wat e incendiò una foresta indiana con le sue sfortunate tigri. In Persia si trasformò in una tempesta del deserto e seppellì sotto la sabbia un’esotica città-fortezza. Fu un amore straordinario, epocale. La persona di cui Sumire si era innamorata aveva diciassette anni più di lei ed era sposata. E come se non bastasse, era una donna. E’ da qui che tutto cominciò, ed è qui che tutto (o quasi) finì".

Kill Billy: istruzioni per una nuova libreria di Raffaella R. Ferré. Trovi le puntate precedenti su Fanpage.it

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