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Suicidi in carcere: lo psicologo spiega come si valuta il rischio e i possibili errori del caso di Stefano Argentino

A Fanpage.it lo psicologo Vito Michele Cornacchia, che ha lavorato in diversi istituti penitenziari d’Italia, spiega quali potrebbero essere stati gli errori sul caso di Stefano Argentino, in carcere con l’accusa del femminicidio di Sara Campanelle e morto suicida la scorsa settimana.
A cura di Giorgia Venturini
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La Procura di Messina ha aperto un fascicolo per far luce su quanto accaduto a Stefano Argentino, il ragazzo che settimana scorsa si è tolto la vita in carcere. Era accusato del femminicidio di Sara Campanella e il prossimo 10 settembre sarebbe dovuto iniziare il processo nei suoi confronti. Fin da subito il ragazzo aveva espresso l'intenzione di togliersi la vita tanto che appena entrato in carcere era scattata l'alta sorveglianza, che però gli era stata tolta 15 giorni prima il suicidio. Ora sette persone sono indagate, tra cui la direttrice e la vicedirettrice del carcere. Ma cosa succede all'interno delle carceri in un caso simile? Quali potrebbero essere stati gli errori? A Fanpage.it lo ha spiegato lo psicologo Vito Michele Cornacchia che ha lavorato in diversi istituti penitenziari d'Italia.

Come si valuta rischio suicidio nelle carceri?

Proteggere l’incolumità, la salute e la prevenzione del rischio di autolesionismo e/o suicidario dovrebbero essere gli elementi della ‘normalità' all’ingresso del detenuto in carcere, sia per il dettato Costituzionale e le norme UE sia per il mandato dell’ordinamento Penitenziario che affida la responsabilità della tutela del detenuto agli organismi che rappresentano lo Stato italiano.

La valutazione del rischio anti-conservativo che sfida l’istinto di conservazione, tipico dell’essere umano, non è mai affidata al singolo operatore ma ad un'équipe multi-professionale che si riunisce ad hoc, a seconda dei casi, anche quotidianamente se il rischio è elevato.

All’ingresso in istituto la persona ristretta viene immatricolata e l’operatore è tenuto a chiedere se ha problemi con altri detenuti; effettua riscontri su eventuali precedenti carcerazioni o situazioni critiche evidenziate dal fascicolo personale ed informa gli altri operatori circa la tipologia del reato.

Viene visitato dal medico e dallo psichiatra che somministrano scale specifiche per la valutazione del rischio e valutano in prima battuta la necessità dell’'attenzionamento' (ex grande sorveglianza), informando tempestivamente la direzione e il ‘responsabile della Sorveglianza', presente in quel momento.

Contemporaneamente effettua colloqui con il Funzionario giuridico pedagogico e lo psicologo. In qualche istituto è lo stesso Direttore e/o il Comandante di reparto che ‘accolgono' il detenuto. Ogni operatore elabora una scheda per le proprie competenze professionali che dovrebbe confluire in una cartella relativa al rischio di autolesionismo e suicidario.

Nel caso di un elevato indice di rischio si convoca ‘immediatamente' lo Staff multidisciplinare straordinario per le decisioni (sostegno, attenzionamento, sorveglianza a vista e, soprattutto, se può ‘stare da solo') e l’organizzazione degli interventi (allocazione, visite quotidiane dei vari specialisti, anche in cella, eventuale ricorso al supporto dei volontari per i bisogni essenziali ecc.).

Il punto è questo: il percorso sopracitato della persona ristretta all’ingresso in istituto è attuato in tutte le carceri italiane? Mi sembra di no. Nell’esperienza, quasi trentennale, in particolare presso la Casa Circondariale di Lucca, mi è spesso capitato che il nuovo giunto si trovasse in imbarazzo dal numero di colloqui effettuati con i vari operatori, nel giro di poche ore o di un giorno, adducendo che in altre realtà carcerarie la situazione era completamente diversa e gli operatori si vedevano di rado o dopo mesi!

Da annotare che in molte regioni italiane, tra cui primeggia la Toscana, esistono dei protocolli specifici per il disagio psichico e per la prevenzione del rischio anticonservativo con riserva di fondi per l’assunzione di psicologi, ahimè annuali, da destinare in vari istituti, secondo criteri statistici.

Quali errori potrebbero essere stati commessi nel caso di Stefano Argentino?

Purtroppo, secondo la mia esperienza, i fattori predittivi e l’intenzionalità anticonservativa con indice elevato di rischio all’ingresso, non si esauriscono in quindici giorni, soprattutto per la tipologia del reato, aggravato dal verosimile forte senso di colpa e dalla probabile presenza di un processo d’infuturazione con vissuti negativi costanti.

Questi indicatori possono emergere in una vera presa in carico psicologica di elevato spessore professionale. A mio parere, le risorsa utili per avere un quadro ‘ad ampio spettro' possono essere la somministrazione di un test di personalità multifattoriale insieme a scale per la depressione e la C-SSRS ( Columbia-Suicide Severity Rating Scale) che nell’identificazione dei fattori di rischio oltre alla storia personale e familiare si occupa dello stato mentale e degli ‘stressor recenti' insieme alla valutazione del comportamento, delle idee suicidarie, delle risorse e dei fattori protettivi e, dove in ultima, si possono sviluppare indicazioni per eventuali azioni da intraprendere in condivisione con altri operatori.

Questo comporterebbe un valutazione-rivalutazione da effettuare in tempi lunghi con l’intervento ‘quotidiano' dei vari operatori tacciando ‘piccoli passi' in un segmento di disagio e sofferenza estrema anche se apparentemente celata in comportamenti ‘adeguati'.

Come si vede, proteggere la vita di una persona è abbastanza complesso, se poi aggiungiamo che nel sistema penitenziario le figure professionali ‘ci sono e non ci sono', ‘vanno e vengono' e gli psicologi e gli psichiatri si contano su poche decine, come si fa a regolarizzare un servizio Nuovi Giunti che dovrebbe essere il punto di partenza del percorso di integrazione della persona proveniente dalla libertà con pochi operatori e la situazione del sovraffollamento?

Di più, osserviamo una disparità di percorsi e di interventi tra Carcere e Carcere. Una dismogeneità che rimanda alle scelte del DAP che favoriscono interrogativi sulla qualità organizzativa e decisionale.

Ritornando al caso Argentino, mi sembra una decisione affrettata nel togliere l’attenzionamento dopo quindici giorni sulla base di un semplice presunto comportamento nella norma, quando nella complessità di talune situazioni, è necessario svolgere opportuni e specifici interventi valutativi che hanno bisogno di un monitoraggio costante e di tempi adeguati in una vera e propria presa in carico della persona che può durare anche mesi con una graduazione del livello per es. da Sorveglianza a vista ad Attenzionamento a sostegno.

Quando uno psicologo può decidere di togliere l'alta sorveglianza?

Abbiamo visto che non può mai essere lo psicologo a togliere l’attenzionamento o la sorveglianza a vista ma l’équipe o lo Staff multidisciplinare. Lo psicologo come altri specialisti partecipa ed offre i suoi indicatori tecnico-professionali e valutazioni alla decisione collegiale.

Poi, quale psicologo? Nell’ordinamento penitenziario è previsto l’esperto ex articolo 80 che dovrebbe interessarsi del Nuovo Giunto e dei detenuti definitivi. In molte realtà si fa confusione sul ruolo e magari si affida l’ex articolo 80 solo l’osservazione scientifica della personalità e si delega allo specialista psicologo dell’ASL, quando c’è, o nel caso della Regione Toscana agli specialisti convenzionati per l’assistenza psicologica. Inoltre, in quasi tutte le carceri esistono gli psicologi dei Servizi per le dipendenze patologiche. Naturalmente si tratta di numeri esigui che non possono soddisfare le necessità impellenti come nel caso del rischio suicidario.

Successivamente alla sorveglianza a vista, come si potrebbe intervenire?

Ho già espresso la mia opinione, dopo la sorveglianza a vista (che può durare alcuni giorni) si dovrebbe graduare con il livello di ‘Attenzionamento' (se può stare da solo o non) per un lungo periodo sino all’inserimento lavorativo del detenuto. Al contrario quando la situazione è critica e gli interventi risultano vani si dovrebbe attuare il ricovero presso
l’SPDC proprio per la prevalenza del diritto alla salute e della vita della persona.

Ha senso metterli in isolamento? Se stessero con altri detenuti questi potrebbe aiutarli?

L’isolamento in genere è previsto per un massimo di 15 giorni ma non è il caso di una persona a rischio anti-conservativo, anzi si dovrebbe fare i famosi ‘piccoli passi' grazie alla presa in carico della persona e favorire l’integrazione con gli altri.
Nel caso specifico, proprio per la tipologia del reato che prelude al rischio di violenze da parte degli altri detenuti, a mio parere, funzionerebbe il peer to peer, trovare volontari ad hoc tra i detenuti che potrebbero favorire il processo d’integrazione insieme al graduale superamento del disagio con la partecipazione attiva e quotidiana di tutti gli operatori.
Non dovrebbe mai essere lasciato solo, in nessun momento della giornata!!! Anni fa, nel carcere di Prato, proprio come nel caso Argentino, un detenuto ad alto rischio suicidario, approfittò dell’uscita dei compagni di cella per togliersi la vita.

Qual è il problema delle carceri italiane? 

Ogni giorno si parla di sovraffollamento e di suicidi in carcere. Si parla poco dell’organizzazione ‘pratica' dei servizi per la tutela della persona e dei diritti. Assistiamo ‘all’abbaiare' di taluni politici, senza riflettere sui controlli e sulla disomogeneità tra carcere e carcere. Si potrebbero salvare tante vite umane superando la generalizzazione di un problema quale il sovraffollamento che persiste da anni, come causa di tutto, occupandosi nello specifico dell’organizzazione e verifica dei protocolli sul rischio suicidario, sulla effettiva necessità di aumentare il numero di psicologi e psichiatri (con preparazione professionale specifica) e sulle responsabilità di chi non svolge il proprio dovere.

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