Omicidio di Sarah Scazzi, dopo 15 anni Michele Misseri si dice ancora colpevole: “Ma la gente non mi crede”

Le macchine, alla periferia di Avetrana, oggi sono più del solito. Sfilano lentamente per il centro storico e hanno un'unica destinazione, via Grazia Deledda. Puntano tutte verso una villetta bassa, circondata da uno spesso telo verde che tutto nasconde: Casa Misseri. Qui quindici anni fa perse la vita, fra le due e le tre del pomeriggio, Sarah Scazzi. Qui da febbraio è tornato a vivere, dopo aver scontato la sua pena, Michele Misseri, zio acquisito della ragazza. Qui – dopo essere venuti tante volte, la prima quasi dieci anni fa – torniamo oggi per riannodare i fili di una vicenda che tutti in Italia pensiamo di conoscere, grazie alle dirette televisive e alle supposizioni da fazioni calcistiche. Di certo il delitto di Avetrana custodisce un unicum al mondo: due donne in carcere, condannate all’ergastolo in via definitiva, che non smettono di dirsi estranee ai fatti e un uomo che, considerato innocente per l'omicidio dalla giustizia, continua a definirsi l’unico colpevole.
"Il problema – ci spiega Michele Misseri, che ci accoglie sugli scalini con un mezzo sorriso – è che le persone continuano a non credermi, e io non capisco perché. La verità l’ho confessata la notte in cui ho accompagnato gli inquirenti a trovare il corpo di Sarah nelle campagne. Se si fossero accorti di me prima, se si fossero fatti delle domande su di me prima, tutto questo non sarebbe accaduto e la verità sarebbe subito venuta a galla".
Gli occhi di Misseri si velano, e lui si siede sugli scalini esterni di questa villetta assolata dal giardino curato. "Sono stato costretto a far ritrovare il cellulare di mia nipote, perché si accorgessero della mia esistenza. Ma gli inquirenti forse avevano già in testa una tesi, per cui la responsabile era mia figlia Sabrina con mia moglie Cosima, e non mi hanno mai considerato. Ma la verità è che quando io ho visto Sarah affacciarsi in garage con una canotta e un paio di pantaloncini attillati, non ci ho visto più. Ho tentato un approccio sessuale, e quando mi ha respinto…". Abbiamo sentito molte volte queste parole. Sempre uguali. Abbiamo provato a fare una sintesi per rendere questa vicenda il più comprensibile possibile, ma è impossibile ridurre a poche battute una storia così complessa.
La verità è che arrivare ad Avetrana è sempre la fine di un lungo viaggio. Vi si giunge dopo ore di macchina – anche nel migliore dei casi, quando si atterra a Bari o nella più vicina Brindisi – attraversando, su strade perlopiù sconnesse, distese di ulivi malati, di tronchi accatastati, sterpaglie, e poi ancora basse e rigogliose vigne, profumati alberi di fico. La terra, come in tutto il Salento di cui Avetrana è avamposto Settentrionale, è di quel colore rosso intenso, quasi aranciato, che ha reso celebre questo luogo e che – in pochi lo ricordano – è dovuto all'elevata presenza di ossidi di ferro. È difficile dimenticare che qualcuno scrisse – quando proprio il 26 agosto 2010 Sarah Scazzi scomparve, appena quindicenne, dopo aver salutato la madre per andare a casa della famiglia Misseri – che quella terra "forse era già stata bagnata dal sangue".
Da allora sono passati quindici anni. Anni in cui non è stata perduta né la propensione all'esagerazione retorica né il circo mediatico, che non solo non ha lasciato i vicoli di questo paese pugliese da appena 7mila anime, ma lo ha addirittura accompagnato in un abisso collettivo, siglando in modo del tutto inaspettato un nuovo capitolo nella mediaticità del caso più mediatico (da sempre) nel nostro Paese. Per capire che cosa sia ciò che spesso viene – atrocemente – battezzato come "il caso Avetrana" e in qualche modo comprendere le parole di Michele Misseri è però fondamentale tornare al 26 agosto 2010. Riavvolgere il nastro di quindici anni, anche se per molti (come per noi, d’altronde) può sembrare ieri.
Poco dopo pranzo una ragazza bionda e molto magra, figlia di Concetta Serrano e di Giacomo Scazzi, esce di casa. Deve fare 487 metri. Tanta è la distanza che la separa da casa della cugina Sabrina, che fa l'estetista – esercita in casa, con tariffe molto modeste – e che vive con la madre Cosima, sorella di Concetta e di lavoro bracciante agricola, e il marito di lei, Michele Misseri, a sua volta indefesso lavoratore nelle vicine campagne. In quella distanza irrisoria Sarah scompare.
A niente valgono gli appelli, le ricerche furiose, la crescente attenzione mediatica tanto ambita dai famigliari – convinti che questa avrebbe potuto giovare a ritrovare la giovane – che presto diventa un'ossessione nazionale: che fine ha fatto Sarah? Se lo chiedono i telegiornali, i programmi TV della mattina e del pomeriggio, i cronisti che ad Avetrana arrivano e chiedono dove dormire, affollano i bar e i ristoranti (dato innegabile perfino per chi oggi condanna quel circo). Se lo chiedono, naturalmente, le forze dell'ordine a cui la famiglia si rivolge poche ore dopo la scomparsa, allarmata da un comportamento incomprensibile: Sarah non era tipo da volatilizzarsi così, non aveva avuto alcun atteggiamento sospetto né quel 26 agosto né nei giorni precedenti. E poi era diretta dalla cugina per andare al mare con delle amiche; quello, nella sua routine provinciale, rappresentava "un momento felice".
Dal giorno della scomparsa, si indaga senza sosta, ovunque: arrivano i cani molecolari, si batte palmo a palmo la campagna tutta identica e sterminata. Avetrana, con le sue strade, le sue piazze, le sue bellezze artistiche e architettoniche da piccolo paese di provincia, diventa il cuore pulsante di un ambito feuilleton di fine estate. Un'estate in cui i social non erano ancora così diffusi, e per trascorrere le ore in quel reperto sociale che era la villeggiatura si avevano a disposizione solo i pettegolezzi con i vicini di ombrellone e sparuti giornali di gossip.
Ripresa dopo ripresa, intervista dopo intervista, le persone coinvolte nella scomparsa di Sarah – la madre Concetta e il padre Giacomo, la cugina Sabrina, la zia Cosima, ma anche alcuni abitanti del luogo – cominciano a diventare familiari all'opinione pubblica. Si trasformano, senza rendersene conto, in personaggi. In quelle che cinicamente vengono definite, secondo il linguaggio televisivo votato alla sintesi, delle "facce". La gente quando incontra Sabrina Misseri che fa un appello, o la madre Concetta Serrano che ricorda la figlia, smette di fare zapping. Lascia il telecomando sul tavolo. I talk del pomeriggio raggiungono picchi di audience e quella storia ancora soltanto all'inizio diventa oggetto di un reality dal quotidiano.
Si viene a creare – nei 42 giorni che porteranno al ritrovamento del corpo – un crescendo di attenzione, che farà sovrapporre ciò che accade a ciò che viene raccontato, rendendo sempre più labile il confine fra quello che è vero, e quello che invece è stato insinuato, raccontato, ipotizzato. E il dramma del ritrovamento del cadavere – annunciato su Rai3 da Federica Sciarelli, nel corso di Chi l'ha visto? – diventerà uno dei momenti tragicamente "cult" di questo dramma a puntate, cui seguirà il funerale, le sirene spiegate degli arresti, il processo anticipato più e più volte dai media, prima ancora della condanna all'ergastolo di Sabrina Misseri e di Cosima Serrano.
Michele Misseri – che il corpo l'aveva fatto ritrovare – sarà condannato solo per questo, e una volta fuori dopo otto anni in galera ci dirà – prima intervista concessa: "Sono stato io. Ho provato ad abusarla, lei si è ribellata e l'ho strangolata". Le stesse parole che ci ripete adesso. Le stesse identiche parole della prima confessione, quella che diede il 6 ottobre 2010, prima di portare gli inquirenti a rinvenire il corpo. E che poi ritrattò sette volte con gli inquirenti, dopo importanti pause durante gli interrogatori, fino a perdere credibilità davanti gli occhi dell’opinione pubblica.
In tutto questo la mediaticità non abbandona Avetrana. Non abbandona le strade di questo paese che è divenuta fiction prima televisiva in modo inconsapevole e poi per una piattaforma internazionale (con tanto di dibattito sul nome finito in tribunale, anche questo un unicum). Non abbandona le fazioni "innocentisti vs colpevolisti", come nei migliori drammi di cronaca nera. Ma soffoca – sotto il partito della posizione scolpita nella pietra per taluni, di convenienze per altri – il proprio sguardo su una vicenda che oggi aggiunge un nuovo capitolo di disgustoso clamore al clamore già disgustoso che ne ha animato gli anni.
"Adesso vado a casa di alcuni amici, almeno evito di sentire queste macchine che rallentano per fare la fotografia", ci dice Michele indicando il garage vicino dove secondo il suo racconto si sarebbe consumato il delitto.
Articolo scritto da Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni, autori del libro "Sarah" (Fandango) da cui è stato tratto il documentario omonimo per Sky e la serie Disney+ "Avetrana – Qui non è Hollywood" vincitrice del Nastro d’Argento come migliore serie crime dell'anno.