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Lucia Regna massacrata dall’ex che “va compreso”: perché le motivazioni di questa sentenza dovrebbero spaventarci

La sentenza di proscioglimento dal reato di maltrattamenti in famiglia dell’ex marito di Lucia Regna è l’espressione di un orientamento ancora fin troppo condiviso e diffuso che non solo non tutela le donne, ma le responsabilizza per la violenza che hanno subito, anche quando questa è dimostrabile e certificata.
A cura di Margherita Carlini
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Le motivazioni alla sentenza che ha portato al proscioglimento dal reato di maltrattamenti in famiglia dell’ex marito di Lucia Regna, dovrebbero spaventarci oltre che indignarci. Sono purtroppo l’espressione di un orientamento ancora fin troppo condiviso e diffuso che non solo non tutela le donne, ma le responsabilizza per la violenza (anche quando questa è dimostrabile e certificata) che hanno subito. Un orientamento culturale, prima ancora che formativo e formale, che ostacola inevitabilmente l’emersione del fenomeno ed espone le donne che cercano di tutelarsi a rischi più elevati di escalation e di letalità.

Lucia Regna è stata massacrata dall’ex marito il 28 luglio del 2022, alla presenza dei genitori di lei, aggrediti a loro volta. Una violenza tale, quella subita, che la ha comportato la frattura del viso in maniera tanto grave da necessitare dell’utilizzo di 21 placche di titanio per la ricostruzione.

La sentenza, come dicevamo, non ha riconosciuto il reato di maltrattamenti in famiglia, sostanzialmente reputando discordanti le dichiarazioni rese dalla persona offesa e ha preso in esame la rilevanza penale di quell’unico episodio. Riconoscendo per altro all’imputato i doppi benefici di legge, in quanto “persona incensurata” il cui “gesto violento è legato ad una specifica condizione di stress alimentata per vie diverse” e pertanto non indicativo di un rischio di reiterazione delle suddette condotte. Per questo l’ex marito della Regna ha avuto una condanna ad un anno e sei mesi, escludendone la detenzione.

Le dichiarazioni della donna vengono quindi messe in discussioni, ritenute contraddittorie e poco credibili, mentre si aderisce al riferito dell’imputato.

È così ad esempio rispetto alla descrizione del contesto maltrattante, costituito essenzialmente (prima dell’agito violento) da violenza psicologica e verbale che Lucia riferisce con queste parole “(mi diceva) che ero una puttana, che avevo rovinato la famiglia […] che non ero una brava madre”, e da minacce di “farle del male, farla piangere, di portarle via i figli, di ammazzarla, di buttarli giù dal balcone”. Un atteggiamento questo che non solo non viene riconosciuto nella sua gravità e nel suo significato predittivo di agiti più gravi, ma viene minimizzato e giustificato "dall’amarezza (dell’imputato) per la dissoluzione della comunità domestica” e pertanto “umanamente comprensibile”.

Una lettura interpretativa delle dinamiche relazionali tra la Regna ed il marito e del comportamento tenuto dalla stessa (e alle dichiarazioni rese) che sembra non tener conto di quelle che sono le dinamiche tipiche di un contesto maltrattante e di quelle che sono le difficoltà che incontra una persona esposta ad un trauma complesso nella rievocazione dei vissuti.

Ciò che appare ancora più preoccupante è la lettura distorta delle dinamiche con conseguente colpevolizzazione della vittima.

A Lucia viene infatti attribuita la responsabilità della sofferenza e del “comprensibile” stato in cui versava l’ex marito il giorno in cui l’ha massacrata di botte, a causa della decisione della donna di interrompere la relazione e di intraprendere una nuova frequentazione con un altro uomo.

Si arriva a giudicare le modalità con cui la donna ha deciso di interrompere la relazione quando, approfittando dell’assenza del marito per una vacanza, la stessa aveva deciso di comunicargli con dei messaggi che i suoi sentimenti erano cambiati. Una scelta dovuta al fatto che se “lui era lontano, era più facile potergli comunicare una cosa del genere” ha riferito la donna. Nelle motivazioni non si prende in considerazione come questa affermazione della Regna stesse ad indicare il timore della stessa per una eventuale reazione del marito a fronte della sua decisione di interrompere la relazione, ma anzi si legge come per il collegio “non è difficile immaginare cosa abbia provato l’imputato nell’apprendere che sua moglie poneva fine con un messaggio WhatsApp a un legame quasi ventennale”.

Una serie di passaggi esplicativi della lettura stereotipata e distorta che ha caratterizzato l’interpretazione dei fatti in oggetto ed il conseguente disconoscimento della violenza nella sua corretta dimensione.

Ed ecco che, si legge ancora “se lo sfogo d’ira dell’imputato viene correttamente inserito nel suo contesto, un contesto che tenga conto delle sue cause (comportamenti non ineccepibili della vittima), ecco che quello sfogo potrà essere ricondotto alla logica delle relazioni umane".

Una logica, quella ravvisata dal collegio che per nulla può dirsi condivisibile. Si dovrebbe accettare altrimenti che la violenza, anche la più brutale, può trovare una motivazione. Si dovrebbe accettare, come ancora troppo spesso accade, che quando una donna chiede aiuto alle istituzioni queste, invece che sostenerla, la rivittimizzino, colludendo nei pensieri e pertanto sostenendone gli agiti, dell’abusante.

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Sono Psicologa Clinica, Psicoterapeuta e Criminologa Forense. Esperta di Psicologia Giuridica, Investigativa e Criminale. Esperta in violenza di genere, valutazione del rischio di recidiva e di escalation dei comportamenti maltrattanti e persecutori e di strutturazione di piani di protezione. Formatrice a livello nazionale.
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