Il caso Enzo Tortora, dall’errore giudiziario alla frase entrata nella storia: “Dove eravamo rimasti?”

"Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi". Con queste parole, pronunciate davanti ai giudici, Enzo Tortora, popolare conduttore televisivo dalla fine degli anni Cinquanta fino alla sua morte, avvenuta nel 1988, si congedò da un processo che avrebbe dovuto restituirgli la dignità. Ma la ferita, per lui e per il Paese, era già profonda. La sua vicenda è diventata il simbolo tragico e imperituro di una giustizia smarrita, travolta dal clamore, dai riflettori, dalla voglia di colpire.
Tutto iniziò all’alba del 17 giugno 1983. Sono le 4:30 del mattino. Enzo Tortora viene svegliato nella sua stanza dell’Hotel Plaza di Roma da un gruppo di carabinieri. L’arresto è immediato, le manette scattano ai polsi di uno degli uomini più amati della televisione italiana. Le accuse sono gravissime: traffico internazionale di stupefacenti, appartenenza alla Nuova Camorra Organizzata. In poche ore, la sua vita cambia per sempre.
Il volto della TV popolare

Tortora non era un personaggio qualsiasi. Volto storico della RAI, conduttore del celebre programma Portobello, capace di attrarre milioni di telespettatori a puntata, rappresentava un’Italia che cercava ancora fiducia nella televisione pubblica, un’Italia che credeva nel valore della parola, della cultura, del confronto civile.
Nato a Genova il 30 novembre 1928, era un uomo riservato, lontano dai riflettori del gossip, vicino ai libri e al lavoro. Forse proprio questa sua diversità lo rese un bersaglio ideale.
Le accuse e il meccanismo dell’errore

Tortora fu uno degli 857 arrestati in una maxi-operazione della Procura di Napoli contro la camorra il 17 giugno 1983. Le accuse mosse contro di lui derivavano dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Giovanni Pandico e Pasquale Barra. Fu Pandico a inserire il nome di Tortora in una lista di presunti affiliati, sostenendo che fosse stato nominato “camorrista ad honorem” a Milano. Una ricostruzione priva di riscontri, smentita persino dalla proprietaria dell’appartamento dove sarebbe avvenuto il presunto rito, la quale dichiarò: "Nel 1979 io quella casa non l’avevo nemmeno acquistata".
Nessuno però verificò. I dubbi furono messi da parte. I giornali parlarono, fotografarono, sentenziarono. Tortora venne esibito in manette: un’immagine diventata emblema della gogna mediatica. Anche grazie a questo caso, anni dopo, si arrivò alla modifica della legge che vieta la diffusione di immagini di arrestati in manette.
Il processo e la condanna

Trasferito nel carcere di Bergamo, Tortora si dichiarò innocente fin dal primo giorno. Ma le testimonianze dei pentiti si moltiplicavano. Altri lo accusarono senza prove: uno affermò che riceveva droga travestito nei night club milanesi; un altro disse di averlo visto spacciare negli studi TV, salvo poi ritrattare.
Il 17 settembre 1985, nonostante l’assenza totale di prove, Tortora fu condannato a dieci anni di reclusione e al pagamento di una multa di 50 milioni di lire. Rinunciò all’immunità parlamentare ottenuta con l’elezione al Parlamento europeo. Scelse di affrontare il processo d’appello da cittadino comune, senza privilegi.
La verità e la riabilitazione

Nel processo d’appello, la verità iniziò lentamente a farsi strada. I pentiti ritrattarono, confessarono di essersi accordati. Alcune prove si rivelarono frutto di clamorosi errori: il nome “Tortora” letto su un’agenda era in realtà “Tortòna”, un commerciante salernitano. Nemmeno quel numero era stato verificato. Persino Raffaele Cutolo, capo della NCO, negò ogni collegamento con Tortora.
Tra chi lo difese fin dall’inizio ci fu Piero Angela, che insieme ad altri amici firmò una lettera aperta pubblicata su La Repubblica con una domanda semplice ma potente: “E se fosse innocente?”
Il 13 giugno 1987 arrivò l’assoluzione piena: “Per non aver commesso il fatto". Tortora tornò in televisione pronunciando una frase rimasta nella memoria collettiva:
«Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. Io sono qui, e lo so, anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi»
Un epilogo amaro

Ma il tempo non gli fu amico. Poco dopo il ritorno in tv con Portobello gli fu diagnosticato un tumore. Morì a Milano il 18 maggio 1988. Un anno dopo essere stato riconosciuto innocente, l’Italia perdeva un uomo colpito nel corpo e nell’anima da un errore giudiziario gravissimo.
Le scuse, le omissioni, le domande

Negli anni successivi, alcuni si pentirono. Il PM Diego Marmo, che aveva chiesto la condanna per il conduttore, ammise pubblicamente: "Mi sbagliai. E chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora". Ma nessun procedimento fu aperto contro i magistrati che guidarono l’inchiesta. Il Consiglio Superiore della Magistratura non intervenne.
A distanza di oltre quarant’anni, le domande restano: perché proprio lui? Perché un uomo innocente fu schiacciato da un sistema che avrebbe dovuto proteggerlo?