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La guerra in Kosovo, una ferita mai rimarginata dell’Europa comunitaria

La partita tra Serbia e Albania, valevole per le qualificazioni ad Euro2016 è stata sospesa per l’arrivo in campo di una bandiera inneggiante alla Grande Albania e all’unità territoriale con il Kosovo. Sono scoppiati risse in campo, scontri sugli spalti e manifestazioni di protesta a Tirana.
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I conflitti etnici nei Balcani non sono mai finiti. Questa è l'incontrastabile verità che la cronaca, ancora una volta, sottolinea. Una banale partita di calcio, banale per modo di dire s'intende, ha riacceso in pochi attimi sentimenti e tensioni sopiti da anni di sforzi diplomatici e politici.
A ravvivare la miccia del nazionalismo serbo e, soprattutto, di quello albanese è stato l'incontro di calcio tra le due nazionali balcaniche tenutosi ieri, martedì 14 ottobre, a Belgrado e valevole per le qualificazioni ad Euro 2016 (fanno parte del gruppo I anche Portogallo, Danimarca e Armenia).
La sfida, ritenuta sin dalla vigilia ad alto rischio scontri e per questo vietata ai tifosi ospiti, è stata sospesa poco dopo la mezz'ora del primo tempo quando sul cielo dello stadio Partizan è calata – tramite un drone telecomandato – una bandiera raffigurante la cosiddetta “Grande Albania”, rimando esplicito alle rivendicazioni territoriali albanesi sul Kosovo.

Il vessillo volante è stato intercettato sul terreno di gioco da un calciatore serbo che, con poco riguardo, ha strappato la bandiera per eliminarla dal campo. Questo è bastato ad accendere una gazzarra, persino contenuta viste le premesse, tra i ventidue nazionali terminata solo dopo la riconquista della bandiera da parte di un atleta albanese. Un episodio che sarebbe potuto finire lì, ma che invece – e come ampiamente prevedibile –, ha accesso gli animi degli spettatori, e non degli sportivi in campo, che hanno iniziato a bersagliare la rappresentativa di Tirana con i lancio di oggetti dagli spalti. Molti ultras sono riusciti a sfuggire alle maglie della sicurezza serba giungendo sul terreno di gioco e solo grazie all'intervento dei giocatori di Belgrado, come si evince chiaramente dalle immagini, si è evitato che le aggressioni sfociassero in qualcosa di ben più grave. Nel frattempo a Tirana migliaia di tifosi sono scesi in strada per sostenere il gesto provocatorio in nome della Grande Albania e dell'unità territoriale con il Kosovo.

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Non è chiaro chi abbia pianificato e realizzato tale chiara provocazione, secondo un report della polizia serba l'autore del gesto sarebbe il medico albanese con passaporto statunitense Olsi Rama, fratello del Primo ministro di Tirana Edi Rama (il medico è stato fermato all'uscita dello stadio con indosso un telecomando ritenuto compatibile con il drone incriminato), ma è chiaro che l'autore o gli autori del gesto volessero provocare una reazione – possibilmente violenta – degli spettatori serbi riaffermando il principio di sovranità territoriale del Kosovo o, per essere più precisi, di appartenenza storica, etnica e politica dell'attuale provincia autonoma con capitale Pristina all'Albania. Il conflitto del Kosovo, che ha insanguinato i Balcani centrali nella seconda metà degli anni '90 (dal 1996 al 1999, registrando tuttavia pesanti strascichi e violenze fino alla metà degli anni Zero), non ha trovato una soluzione definitiva e condivisa né in seno alle autorità internazionali (l'autonomia dell'area, dichiarata unilateralmente dalla maggioranza albanofona nel 2008 è riconosciuta solo da una parte della comunità internazionale) né tra i diretti contendenti (ovvero Serbia e Albania), rappresentando a tutt'oggi l'ennesima ferita aperta dei conflitti etnico-politici europei e pronta ad esplodere in ogni momento.

Il cuore del conflitto kosovaro riguarda l'identità dell'area che è a schiacciante maggioranza albanese, di religione musulmana, ma inserita a pieno titolo nel territorio serbo e al centro di dispute territoriali e politiche da più di mille anni. La conflittualità tra l'amministrazione di Belgrado, determinata a tutti i costi a mantenere l'unità territoriale nazionale soprattutto dopo la dissoluzione della Jugoslavia, e la popolazione di etnia albanese ha generato violenze, rappresaglie e massacri ingiustificabili da tutti i punti di vista. Oggi il Kosovo gode di uno status ibrido ed è ancora al centro di un conflitto sentitissimo, giocato soprattutto a livello politico e diplomatico, tra le due comunità (non c'è stata una guerra diretta, per fortuna, tra la Serbia e l'Albania e i combattimenti si sono tenuti solo nel territorio kosovaro) che come dimostrato dall'incontro di martedì non perdono occasione per ridare fuoco alle polveri. È d'obbligo sottolineare che una parte cospicua della comunità internazionale, guidata da Stati Uniti d'America, Regno Unito, Italia e Francia, sostiene l'indipendenza del Kosovo concedendo maggiore intraprendenza politica alle rivendicazioni di matrice filo albanese rispetto a quelle serbe.

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La pericolosità del mai sopito conflitto kosovaro risiede sia nel pericolo di reiterazione di violenze che hanno duramente segnato la popolazione civile nel corso degli ultimi quindici anni – da entrambi le parti –, sia nella possibilità di dare nuova linfa alle numerose istanze indipendentiste e separatiste che proprio nel corso degli ultimi mesi hanno infiammato l'Europa. Dal punto di vista strettamente politico è arduo da comprendere, ad esempio, perché il Kosovo (formalmente provincia autonoma meridionale della Serbia) possa avere diritto all'indipendenza e non la parte settentrionale di Cipro a maggioranza turcofona e di fatto già indipendente o i Paesi Baschi in Spagna (Madrid rientra tra quelle nazioni che non hanno riconosciuto l'indipendenza di Pristina). A parere di chi scrive, in questo quadro ancora fosco e denso di rivendicazioni e provocazioni pericolose spesso per l'incolumità della vita umana, il gesto dei giocatori serbi di fare da scudo agli avversari albanesi rappresenta in ogni caso la risposta migliore a chi vuole ancora un volta risolvere dispute etnico-politiche attraverso l'uso della violenza.

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