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Sfidare i genitori non è (sempre) maleducazione, ma un esercizio di autostima: la spiegazione delle esperte

I genitori sono soliti pretendere un’assoluta obbedienza da parte dei figli, tuttavia la ribellione rispettosa può aiutare a costruire l’identità e rafforzare l’autostima dei ragazzi. Per gli esperti, anche imparare a sfidare l’autorità degli adulti può diventare una competenza utile per la crescita.
A cura di Niccolò De Rosa
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Per molti genitori, ascoltare un figlio che ribatte o contesta una decisione resta uno dei momenti più difficili della quotidianità familiare. Nella cultura dell’obbedienza e delle "buone maniere", la risposta sgarbata viene percepita come una mancanza di rispetto. Eppure, secondo una parte crescente di psicologi ed esperti di genitorialità, quella piccola ribellione può rappresentare un momento fondamentale nella costruzione dell’autostima e dell'identità personale.

A discutere sugli insospettabili benefici della ribellione è stata la psicologa Sunita Sah, che nella puntata di metà novembre del podcast "Good Inside" ha ricordato che un bambino sfidante, capace di mettere in discussione l'autorità degli adulti, non è automaticamente un "cattivo" bambino.

La "buona disobbedienza" spiegata dalla psicologa

Sah, docente alla Cornell University e autrice del libro "Defy: The Power of No in a World that Demands Yes", ha ricordato nel suo discorso come la maggioranza dei genitori tenda a "sovra-allenare" i figli alla compiacenza, soprattutto perché questo atteggiamento semplifica molto la gestione quotidiana. Un simile imprinting educativo potrebbe però rivelarsi piuttosto limitante quando i ragazzi diventano adulti. Una crescita fondata sul rispetto rigido e acritico delle regole rischia infatti di lasciarli indifesi di fronte alle situazioni in cui sarebbe necessario affermare la propria voce. Per questo, ha spiegato la ricercatrice, molti giovani, una volta cresciuti, faticano a prendere posizione e provano persino imbarazzo nel farlo, perché non hanno mai avuto l’occasione di abituarsi a mantenere il punto o a difendere le proprie convinzioni.

Dire di no è un'abilità da insegnare, non da scoraggiare

Secondo Sah, la capacità di dire di no non è un tratto caratteriale ma una vera e propria competenza che, in quanto tale, va esercitata e rafforzata nel tempo. Per questo invita a un deciso cambio di prospettiva. Se contenuta e non (eccessivamente) aggressiva, la sfida, l'opposizione all'autorità, non va vista come un oltraggio o ribellione fine a sé stessa, ma come un modo per dare forma ai propri valori. "Ci sono modi per essere sfidanti anche in silenzio", ha notato, ricordando che il rispetto per sé stessi e per le proprie opinioni non coincide con l'essere rumorosi o irrispettosi.

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Nella pratica, questo significa invitare bambini e ragazzi a riconoscere i propri limiti, i propri punti fermi, e a interrogarsi sulle situazioni in cui avrebbero voluto parlare ma non l’hanno fatto. Per Sah, anche una piccola contestazione – a patto che venga espressa con rispetto – può diventare un esercizio prezioso per imparare a esprimere le proprie necessità. In questo però anche i genitori devono giocare un ruolo fondamentale. Gli adulti hanno infatti il compito di mostrare con l'esempio come si difendono i propri diritti e le proprie idee. "Quelle lezioni restano", ha spiegato la psicologa, e diventano un modello che i figli porteranno nel mondo adulto.

L'importanza di sentirsi autorizzati a parlare

La parental coach Reem Raouda, intervenuta  recentemente sul sito della CNBC, ha spinto ancora più in là il ragionamento. L'esperta, che da anni studia le relazioni tra figli e genitori, ha spiegato come l'atto di rispondere all'adulto possa essere un segnale molto positivo per l'autostima, a patto che ovviamente tutto avvenga entro i limiti del rispetto reciproco. Un bambino che si sente autorizzato a esprimere un dissenso sta infatti apprendendo una lezione fondamentale: i suoi pensieri, le sue emozioni e le sue convinzioni hanno una dignità che deve essere difesa. Senza questo atteggiamento, il rischio è formare futuri adulti che evitano ogni conflitto, che preferiscono compiacere gli altri e che finiscono per mettere in secondo piano sé stessi.

Per facilitare questo processo, Raouda ha anche invitato i genitori a rivedere il concetto stesso di "maleducazione". Parlare chiaro, difendere un confine, dire che qualcosa non piace non è automaticamente mancanza di rispetto, ma un esercizio di consapevolezza. A fare la differenza è la capacità di farlo riconoscendo l’esistenza dell’altro, senza ferirlo. Questo equilibrio si costruisce attraverso l’empatia, che i bambini imparano soprattutto osservando: come gli adulti chiedono scusa, come spiegano le proprie emozioni, come trattano le persone intorno a loro. Se gli adulti riescono a raccontare come si sentono — irritati, felici, frustrati — i bambini imparano a fare altrettanto. E quando un genitore riconosce di aver sbagliato tono e si scusa, trasmette l’idea che il rispetto non nasce dalla paura, ma dalla reciprocità. La radice di un comportamento davvero rispettoso, ha concluso Raouda, non è la ripetizione forzata di formule di cortesia, ma l'abitudine a usare quelle parole perché se ne comprende il valore e non perché si tratta di qualcosa imposto dall'alto. Insomma, saper dire "no" o fare un po' di polemica, anche ai propri genitori, è uno dei modi più maturi per dire "so chi sono". Una sfida quotidiana per chi educa, ma anche una delle eredità più preziose che si possano lasciare.

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