“Serve un ponte tra Gutenberg e l’IA”: la pedagogista spiega perché la scuola non può più fare a meno del digitale

Nel panorama educativo attuale, il divario tra chi insegna e chi impara si traduce troppo spesso in uno scarto che penalizza proprio i giovani, i quali dovrebbero invece essere al centro del processo formativo. Le differenze generazionali tra chi è cresciuto con i libri stampati e chi è immerso nel digitale fin dalla nascita rischiano di frenare bambini e ragazzi, limitandone le potenzialità a causa di metodi didattici superati e criteri di valutazione ancorati a un passato che non tiene conto del presente. Eppure, il cambiamento è evidente: sono mutate le modalità di apprendimento, così come il modo di pensare, comunicare, immaginare. Per questo, la scuola – e più in generale il mondo adulto – è chiamata oggi a una trasformazione profonda: non per inseguire le mode, ma per ascoltare davvero chi cresce in un mondo che non somiglia più a quello dei loro insegnanti.
A ribadirlo con chiarezza è Barbara Urdanch, docente a contratto all’Università di Torino e consulente pedagogica del progetto della casa editrice MyEdu, che in una recente intervista a Fanpage.it invita istituzioni, insegnanti e anche gli stessi genitori a superare la rigida contrapposizione tra coloro che la docente chiama nativi gutenberghiani, ovvero gli adulti che si sono formati sui testi stampati, e i nativi digitali, che invece hanno imparato a relazionarsi con le informazioni attraverso uno schermo. "Quella digitale non è un'evoluzione degenerativa, ma un processo che privilegia abilità differenti", spiega la pedagogista. "Se infatti i nativi gutenberghiani hanno sviluppato abilità come il pensiero sequenziale, la concentrazione prolungata e la memorizzazione sistematica. i nativi digitali sono invece abituati a un ambiente multimediale e ipertestuale, navigano tra le fonti, usano strumenti interattivi e gestiscono in simultanea più input informativi". Il cervello dei ragazzi di oggi, insomma, si è adattato a stimoli diversi. Non sono peggiori, sono diversi. Ed è proprio in questa differenza che può risiedere la chiave per un’educazione finalmente in sintonia con il tempo presente.

La nostalgia non è un metodo
Nel corso della sua riflessione, Urdanch mette in guardia contro una tentazione diffusa: quella di rimpiangere un passato idealizzato e condannare le trasformazioni in atto. "Ridurre tutto al ‘prima era meglio' è pericoloso e miope", avverte la professoressa. "Non torneremmo mai a fare Torino-Milano a cavallo, perché ci sono le macchine. Certo potremmo usarle meglio, ma a nessuno verrebbe in mente di rimettersi in carrozza per spostarsi". Eppure, ancora oggi una buona parte della popolazione adulta si trova ad assumere una posizione fortemente critica nei confronti delle nuove generazioni, velocissimi a districarsi tra le potenzialità della moderna tecnologia ma in difficoltà quando si tratta di restare concentrati o a immergersi in una lettura lunga e approfondita.
Secondo Urdanch, però, questo approccio è assolutamente sterile. Anzi, sono proprio i gutenberghiani a dover tendere la mano verso le nuove leve per insegnare loro ad affrontare il mondo proprio partendo dalle loro peculiarità:
"Se i ragazzi di oggi non riescono a guardare un film di due ore, proviamo a vederlo con loro, fermandoci ogni volta che pensiamo possa esserci un contenuto da condividere per discuterlo. Quello è un pensiero interattivo e generativo".
Educare i giovani con i loro strumenti
Per costruire un ponte tra i due mondi, è necessario adottare metodologie didattiche che parlino il linguaggio dei nativi digitali, senza però rinunciare alla profondità del pensiero. "Io ad esempio nelle mie classi uso tantissimo il ‘debate', ossia una discussione tra due o più fazioni, le quali sostengono e controbattono un tema assegnato" spiega Urdanch. "Questo approccio permette di sviluppare il pensiero critico partendo da materiali e modalità che i ragazzi riconoscono e sentono vicine". In aula, la docente parte dunque da un video o da un contenuto virale per sollevare un tema di attualità o etico, poi divide la classe in squadre e le invita al confronto. Il risultato? Ragazzi coinvolti, attenti, capaci di argomentare. "Non è vero che non sanno pensare. Non pensano come noi pensiamo che debbano pensare".

Certo, sottolinea la pedagogista, questa apertura non significa un’adesione acritica al mondo digitale, che deve essere comunque imbrigliato e contestualizzato. "Non è il digitale il nemico, ma l’uso inconsapevole e passivo". Ed è proprio qui che entra in gioco la figura dell’educatore, il quale non è più il detentore del sapere, ma una guida capace di orientare i ragazzi nel mare di informazioni e stimoli che li circonda.
La scuola deve cambiare postura
Ma la scuola italiana è pronta ad affrontare questa sfida? La risposta di Urdanch è chiara: "La scuola deve imparare a riconoscere l’altro secondo come funziona, non secondo come vorrebbe che funzionasse". Non si tratta di arrendersi alla logica dei social o della distrazione continua, ma di trovare un linguaggio comune. "Se qualcuno pensa che quello che si è imparato 40 anni fa – apri, leggi, ripeti – funzioni ancora, probabilmente si trova nel posto sbagliato". Il compito dell’insegnante oggi non può essere pertanto difendere un modello superato, ma essere una fonte di apprendimento nel presente. "Occorre entrare nel loro mondo, senza snaturarlo né subirlo. Significa camminare con loro, non davanti o contro".

Un bisogno, quello di andare incontro a nuove forme di apprendimento, che gli stessi genitori percepiscono sempre più come una priorità. Stando all'indagine condotta da MYEdu con il supporto BVA Doxa, il 62,8 per cento del campione composto da oltre 4.000 genitori intervistati ritengono che i figli dovrebbero sviluppare un metodo di studio personalizzato in base alle loro esigenze, anche a partire dalla scuola primaria. Non solo: già oggi il 52,9% dei genitori con figli alle elementare e il 51,7 per cento di quelli con ragazzi che frequentano le secondarie hanno affermato di stare già utilizzando strumenti compensativi per supportare l'apprendimento di bambini e ragazzi. Un chiaro segnale di un modo di imparare (e di insegnare) che, volente o nolente, è già avviato verso un cambiamento radicale.
L’intelligenza artificiale: alleata o nemico?
Infine, il ruolo dell’intelligenza artificiale. Urdanch è consapevole dei timori che suscita, ma invita a vederne il potenziale inclusivo. "L’IA può alleggerire i carichi in relazione ad alcune caratteristiche di apprendimento (DSA e altre neurodivergenze) e permettere du utilizzare una sorta di "batteria cognutiva" per supportare i reali processi di apprendimento necessari". Per non parlare delle infinite possibilità in termini di efficienza e rapidità di elaborazione.
Per la pedagogista, però, il nodo centrale è un altro: distinguere tra apprendimento mnemonico e apprendimento significativo. "Imparare a memoria tutte le province d’Italia oggi non ha più senso. Ha senso invece saper usare quella conoscenza per attivare competenze". E se l’IA può aiutare a trovare informazioni, il compito della scuola è insegnare a porre domande intelligenti: "Insegniamo ai ragazzi a scrivere un prompt e poi ragioniamoci sopra in classe. Così si insegna il senso critico e si forniscono gli strumenti per vivere nel mondo di domani".