“Quando torni a lavorare?”: madre a tempo pieno spiega perché questa domanda la ferisce ogni volta

La domanda arriva puntuale, spesso velata da un sorriso di circostanza: "Allora, quando torni a lavorare?". Per Tarryn Viney, madre di due bambini, quella frase solo in apparenza innocua è una stilettata che riapre ogni volta una ferita mai del tutto chiusa. Tarryn ha infatti scelto di essere una mamma a tempo pieno, eppure interrogativi di questo tipo finiscono sempre per mettere in discussione un impegno quotidiano che rimane troppo spesso invisibile. A raccontarlo è la stessa Tarryn, che in un recente editoriale pubblicato sul sito del quotidiano britannico Metro ha spiegato perché continuare a fare confronti tra chi si divide tra casa e lavoro e chi invece decide di dedicare le proprie giornate alla crescita dei figli può essere talmente avvilente da far dubitare un genitore del suo intero percorso di vita.
Rispondere a tono come difesa della propria dignità
Nell'appassionato articolo che reca la sua stessa firma, Tarryn ha raccontato di aver iniziato a rispondere con calma che sì, in effetti lavora eccome. Ogni giorno gestisce le faccende domestiche, si prende cura dei figli e coordina ogni dettaglio del loro quotidiano. La sua è una routine scandita da azioni che, come lei stessa riconosce, restano quasi sempre nascoste "dietro le quinte", invisibili agli occhi di chi guarda solo ciò che accade fuori dalla porta di casa.
Le mattine scorrono così tra colazioni, vestiti da preparare e bambini da accompagnare all’asilo. Nel tempo in cui i figli sono fuori casa, bisogna poi incastrare bucati, spese, pulizie, pasti da preparare, la rotazione dei giochi per mantenerli stimolanti (diversi studi hanno dimostrato che mettere a disposizione dei bambini pochi giochi e cambiarli con frequenza stimola la loro creatività), l’amministrazione dell’attività del marito e perfino l’assistenza alla nonna, tra commissioni, visite mediche e faccende domestiche. E la sera si riparte un secondo turno: cena, bagnetti, preparativi per il giorno dopo, messa a letto. Poi, di nuovo, tutto da capo.
Il peso delle aspettative
Il problema, sottolinea Tarryn, non è la mole di lavoro in sé, ma lo sguardo con cui la società giudica chi sceglie o si trova nella condizione di restare a casa. "È come se tutti pensassero che passi la giornata seduta senza fare nulla", racconta. In realtà i ritmi sono così frenetici che Tarryn si ritrova spesso a sentirsi sopraffatta, isolata, priva di uno spazio personale in cui poter respirare e dedicarsi al proprio benessere. Una sensazione che la donna ha imparato a conoscere durante la sua prima maternità, quando le già numerose difficoltà di quel periodo erano state amplificate dallo scoppio della pandemia. Tra ansia, stress e una depressione post partum che inizialmente era stata affrontata con eccessiva leggerezza, Tarryn ha affermato di essere arrivata a un passo da un punto di non ritorno. Soltanto il marito, che lei descrive come "una roccia", era riuscito a tenerla a galla
Dire che si sta male non è facile
Ammettere che qualcosa non va, però, non è semplice. L'ammissione della propria fragilità diventa spesso un tabù, come se una madre dovesse essere sempre raggiante ed entusiasta di trascorrere tutto quel tempo con i figli. Quando invece si prova a confessare le proprie debolezze e a raccontare le difficoltà della situazione, la risposta più frequente è un incoraggiamento generico a "tirare avanti", a resistere in nome di un compito che, tutto sommato, presenta più lati positivi che negativi. Se invece si contravviene a questo spartito e ci si "ostina" a lamentarsi, le conseguenze sul piano sociale possono essere importanti.
Tentando di condividere ciò che provava, Tarryn si è infatti accorta di perdere molte amicizie e di venir percepita come un "peso" nei gruppi sociali. Con il tempo, e con l'arrivo del secondo figlio, l'ansia è migliorata, ma il senso di solitudine è rimasto, soprattutto perché il lavoro di cura, pur totalizzante, è privo di riconoscimento esterno.
Restare sé stesse mentre si accudisce tutto il resto
Per ritrovare un minimo di rete sociale, Tarryn ha così iniziato a frequentare app e gruppi d'incontro per mettersi in contatto con altre madri con esperienze simili. Questo passo le ha permesso di creare nuove amicizie, sebbene il mantenimento dei rapporti richieda tempo ed energia, risorse che spesso scarseggiano. Oggi, guardando altre madri distratte dal telefono, ha imparato che dietro quei cinque minuti di scroll c'è molto probabilmente un bisogno di respirare, di ricordarsi chi erano prima di dedicarsi interamente agli altri. "Perché a volte", ha osservato, "si arriva a perdere la propria identità".
Riconoscere il valore del lavoro di cura
La storia di Tarryn offre uno spunto più ampio: il lavoro domestico e di cura, spesso attribuito soprattutto alle donne, resta uno dei pilastri silenziosi della società. Non compare in busta paga, non prevede ferie e raramente ottiene riconoscimento, eppure mantiene in piedi famiglie intere. Il disagio dietro la domanda "Quando torni a lavorare?" nasce proprio da qui: dal non vedere che quel lavoro esiste già, ogni giorno, ed è tutt’altro che leggero. Riconoscere questo aspetto troppo sottovalutato significa, almeno in parte, rompere l’invisibilità che molte madri vivono sulla propria pelle.