“Non aspettiamo segnali di disagio”: quando e perché portare il proprio figlio dallo psicologo

Non sempre è facile, per un genitore, capire quando è arrivato il momento di chiedere un aiuto esterno per il proprio figlio. In certi casi si ha la sensazione che qualcosa non stia andando per il verso giusto, che il bambino sia spaesato, chiuso, troppo agitato, oppure in difficoltà nella relazione con gli altri o con se stesso. In altri casi, però, non c’è un vero e proprio "campanello d’allarme", ma può comunque essere utile intraprendere un percorso psicologico non solo per intervenire, ma anche per prevenire.
"Portare il proprio figlio dallo psicologo non deve essere necessariamente il risultato di una crisi, ma può diventare parte di un accompagnamento consapevole alla crescita", spiega a Fanpage.it Gian Marco Marzocchi, Professore associato di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Come accade con il pediatra per i bilanci di salute, anche lo psicologo – in particolare quello dell’età evolutiva – può infatti rappresentare una figura di riferimento utile per monitorare lo sviluppo linguistico, emotivo, cognitivo e relazionale dei più piccoli. Un approccio che però in molti casi presuppone la necessità di un cambio culturale: "È importante – sottolinea Marzocchi – superare il pregiudizio che portare il proprio figlio dallo psicologo sia sempre legato a un problema. Può e dovrebbe essere vissuto come un atto di cura e prevenzione".
Il ruolo del genitore: osservare e decidere
Finché si parla di minori, la responsabilità della scelta resta ovviamente in capo al genitore. È il genitore a dover osservare con attenzione l’evoluzione del proprio figlio e, quando necessario, decidere di rivolgersi a un esperto. "La scelta è personale – chiarisce Marzocchi – e spesso nasce da un livello di preoccupazione crescente per alcuni atteggiamenti o comportamenti che segnalano un disagio. Tuttavia può anche rappresentare una decisione proattiva, una sorta di check-up psicologico da mettere in atto già nei primi anni di vita per verificare che lo sviluppo proceda in modo armonico".

Tra i 2 e i 3 anni, i bambini attraversano infatti una fase cruciale dello sviluppo che coinvolge il linguaggio, la motricità e le relazioni sociali sono ambiti fondamentali che andrebbero monitorati con attenzione. In questa fascia d’età il bambino dovrebbe possedere già buone competenze comunicative, muoversi con coordinazione e saper interagire con adulti e coetanei. Proprio per questo, sottolinea l'esperto, un "check" con psicologo e logopedista può offrire una valutazione più accurata rispetto al bilancio di salute pediatrico, spesso limitato dal poco tempo a disposizione.
"Intervenire precocemente, anche su piccole difficoltà, consentirebbe un recupero più rapido e meno stressante per la famiglia" aggiunge il professore, ricordando come oggigiorno lo psicologo dell'età evolutiva lavori sempre più in équipe con logopedisti, neuropsichiatri e terapisti per consentire un’analisi più completa dei diversi ambiti di sviluppo e un intervento più mirato in caso di necessità.
I segnali da non sottovalutare
Quando si parla dello sviluppo psicologico dei bambini, ci sono quattro grandi ambiti che, secondo Marzocchi, un genitore dovrebbe osservare con attenzione: la relazione con gli altri, la regolazione delle emozioni, le competenze cognitive e il comportamento.

Nel primo ambito, conta la capacità del bambino di creare legami, rispettare le regole del gioco, relazionarsi serenamente con i pari e con gli adulti. Il secondo riguarda la gestione delle emozioni: "Un bambino – spiega Marzocchi – dovrebbe riuscire almeno in parte a esprimere quello che prova, saper dire ‘ho paura', ‘sono arrabbiato', o ‘mi sento solo'". Il terzo aspetto è invece legato all’apprendimento e all’attenzione, alla capacità di seguire le lezioni, comprendere le consegne, portare a termine i compiti. L’ultimo, forse il più evidente, è il comportamento: un bambino oppositivo, eccessivamente arrendevole o incapace di adattarsi alle regole può manifestare un disagio che si ripercuote anche nella relazione con i coetanei.
Quando è necessario chiedere aiuto
Se il supporto psicologico può rientrare in una logica di prevenzione, ci sono però anche casi in cui diventa imprescindibile. Marzocchi invita a non attendere troppo: "Se un comportamento problematico compare e persiste per almeno un mese, è già un campanello d’allarme. Un bambino che si mostra improvvisamente irritabile, si ritira socialmente o rifiuta ostinatamente la scuola, deve essere preso sul serio".
Anche i disturbi fisiologici come il sonno e l’alimentazione, spesso considerati "normali fasi di crescita", possono in realtà essere segnali indiretti di un disagio emotivo. Lo stesso vale per forme più gravi come il ritiro sociale, l’autolesionismo o l’aggressività. "Queste manifestazioni – chiarisce lo psicologo – sono spesso modi con cui il bambino o il ragazzo chiede aiuto. Ignorarle o aspettare troppo può rendere il disagio più radicato e difficile da affrontare".