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Perché squalificare il tredicenne aggredito da un papà è giusto, ma non educativo: l’opinione del pedagogista

Un portiere 13enne aggredito da un adulto durante una partita a Collegno è stato squalificato per un anno dal giudice sportivo per aver dato avvio alla rissa. Un provvedimento “giusto ma non educativo”, spiega il pedagogista Luca Frusciello, che invita a distinguere tra disciplina e sport: punire allontanando non aiuta a crescere.
A cura di Niccolò De Rosa
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Un padre che entra in campo e aggredisce un tredicenne durante una partita di calcio tra ragazzi. Una rissa che coinvolge entrambe le squadre e finisce con un portiere in ospedale, con zigomo e malleolo fratturati. Le immagini provenienti da un torneo Under 14 tenutosi a Collegno, in provincia di Torino, hanno fatto il giro dei social, suscitando indignazione e polemiche. Ora la decisione del giudice sportivo: proprio il giovane aggredito, ritenuto tra i responsabili della mega-rissa, è stato punito con un anno di squalifica per condotta violenta ed antisportiva. Una decisione che ha ulteriormente alimentato discussioni sulla "beffa" subita dal ragazzo – picchiato e ora pure squalificato – ma che in realtà cela un problema ancora più profondo, un problema che riguarda il sottile confine tra la giustizia sportiva e funzione educativa dello sport,

"Qualunque interazione che un ragazzo possa avere con il mondo è un'azione educante, dal cartello stradale fino ai codici di condotta di una disciplina sportiva", spiega a Fanpage.it. "Sono modi che la società adotta per spiegare l'esistenza di regole che devono essere rispettate". Lo sport, insomma come il codice della strada o le norme civili, trasmette regole concrete e se le si trasgredisce, è normale che si venga sanzionati. Questo però non significa che la punizione sia la strada più corretta per insegnare a un ragazzo a comportarsi.

Il paradosso educativo: è giusto punire, ma farlo è un errore

"Nessun tredicenne ha mai letto il regolamento di condotta sportiva", osserva Frusciello commentando l'episodio avvenuto nel Torinese, "Eppure ne subisce gli effetti". Rientra pertanto nell'ordine delle cose che comportamento scorretto viene punito, anche perché il provvedimento pretende di fornire un esempio. Poco importa se il ragazzo è stato colpito da un adulto che quel campo non doveva esserci: il giovane atleta era già venuto alle mani con un avversario (anche lui squalificato) e certi comportamenti non possono essere tollerati.  Giusto? Sì, ma per Frusciello il problema è che la questione non affatto esaurirsi con le poche righe di un giudice sportive.

Scatto tratto dal video della rissa avvenuta a Collegno
Scatto tratto dal video della rissa avvenuta a Collegno

Il vero problema, sottolinea l’esperto, risiede infatti  nell'abitudine della società a intervenire solo quando il danno è già fatto. "È un po' come in medicina: vado a dare una terapia sul sintomo e non lavoro sulla prevenzione". Invece di progettare percorsi educativi fin dai primi passi sul campo, si preferisce squalificare chi sbaglia, allontanandolo dal gioco nella convinzione (o nella speranza) che tale punizione serva al "colpevole" per riflettere sul gesto e correggere il proprio comportamento. Una scorciatoia che però non risolve le radici del problema.

Insomma, un po' come nel dramma di Antigone – la giovane greca che per rispettare le leggi divine di rispetto della dignità umana finisce per trasgredire le leggi stabilite dagli uomini – la rissa tra ragazzini ha portato alla luce una situazione paradossale dove è impossibile non punire gli autori della zuffa ma, allo stesso tempo, si rischia di non ottenere lo scopo ultimo del provvedimento, ossia la crescita e la maturazione dei giovani.

Disciplina o sport? La differenza è importante

Per dipanare questo paradosso, secondo Frusciello, occorre distinguere due piani tra la disciplina sportiva, ossia l'impalcatura di norme che decreta ciò che è permesso e ciò che non è permesso durante la pratica di una certa attività, e lo sport in sé: "È la disciplina espelle, non lo sport. Lo sport ti educa e per educarti ti devo tenere vicino a me", afferma l'esperto. Se un ragazzo manifesta comportamenti antisportivi, la risposta non dovrebbe pertanto essere l'esclusione, ma un percorso che lo aiuti a comprendere e interiorizzare i valori dello sport. Altrimenti si cade in una contraddizione: si priva il giovane proprio di quel contesto che potrebbe aiutarlo a crescere.

Immagine di repertorio
Immagine di repertorio

"Allontanare i ragazzi dal campo da gioco, dove possiamo insegnare loro i valori che dimostrano di non avere, è una contraddizione", spiega il pedagogista, poiché punire non equivale a educare: "La distorsione cognitiva risiede nel pensare che nella punizione questi ragazzi facciano una sorta di redenzione. Non credo che ci siano esperienze che vadano in questa direzione".

L'urgenza di rivedere le misure educative

Il nodo, per Frusciello, è l’assenza di un progetto chiaro: famiglie e società non sempre trasmettono un senso preciso al fare sport. Così i ragazzi cercano modelli altrove, spesso in logiche egocentriche o in sogni irrealistici di diventare calciatori professionisti. "Non c’è un’intenzionalità educativa nel gioco: parliamo di fair play, ma senza che ci sia un reale lavoro di formazione. È come mettere un completo a un clochard: non diventa un lord solo perché indossa un abito elegante". Ogni volta che esplode un caso come quello del portiere squalificato, la società reagisce con indignazione. Poi dimentica, fino al prossimo episodio. "Viviamo in un pendolo tra notizie, indignazione e dimenticanza. Non lo trovo sano", riflette Frusciello. Per evitare che queste storie si ripetano, servirebbe invece un investimento strutturale nell'educazione sportiva, capace di prevenire le derive violente prima che diventino cronaca.

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