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Perché non si può interpretare il pianto dei bambini: uno studio smonta il falso mito

Spesso si crede che il pianto del neonato possa essere decifrato per capire bisogni specifici come fame o dolore. Uno studio del neuroscienziato Nicolas Mathevon, presentato su The Conversation, dimostra però il contrario: il pianto segnala solo il livello di disagio, non la causa precisa. Sono invece il contesto e l’esperienza del caregiver gli elementi fondamentali per interpretaere correttamente il problema e intervenire in modo adeguato.
A cura di Niccolò De Rosa
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Il pianto dei neonati è sempre stato considerato un linguaggio universale, capace di comunicare bisogni specifici: fame, dolore, stanchezza o disagio. Per generazioni, genitori e caregiver hanno cercato di "decifrar" questi segnali come se ogni lacrima e ogni urlo contenessero un messaggio cifrato. Ma uno studio recente, illustrato sul sito The Conversation da Nicolas Mathevon, professore di Neuroscienze e Bioacustica all’Università di Saint-Étienne, sembra smontare definitivamente  questa convinzione, decretando una volta per tutte come non esista"linguaggio del pianto" in grado di rivelare automaticamente le esigenze del bambino.

Certo, precisa lo stesso Mathevon, il pianto resta uno strumento fondamentale per il bambino, un allarme che comunica il livello di disagio, ma non permette di distinguere, solo dall'acustica, se la causa sia la fame o il bisogno di essere cambiati. Come evidenzia il lavoro di Mathevon, spiegato nel libro The intimate world of babies' cries e condotto su neonati nei primi quattro mesi di vita, il tentativo di identificare la ragione del pianto esclusivamente attraverso le sue caratteristiche sonore fallisce sia per gli esseri umani sia per le intelligenze artificiali.

Cosa vuole dirci il bambino con il pianto

Il pianto è, innanzitutto, un segnale di allarme. "Il primo e forse più importante dato da sapere è questo: non si può capire perché il bambino piange solo dal suono del pianto", ha spiegato Mathevon. In realtà, il pianto trasmette due informazioni principali: l'identità vocale del bambino, che permette di riconoscere la sua voce unica, e il livello di disagio, che varia dal semplice malessere a un dolore intenso. Il segnale più urgente non è quindi "ho fame" o "cambio il pannolino", ma "attenzione, sto provando disagio". La qualità del pianto, armoniosa o caotica, può però informare il caregiver sul grado di sofferenza: un pianto melodico indica un leggero malessere, mentre un pianto ruvido e disorganizzato segnala dolore acuto o stress intenso.

Il pianto esprime un disagio ma non è possibile capirne la causa solo dalla modulazione dei suoni.
Il pianto esprime un disagio ma non è possibile capirne la causa solo dalla modulazione dei suoni.

Interpretare il pianto, perché è un falso mito: cosa dice lo studio

Molti genitori si sentono sotto pressione a diventare "esperti del pianto", e un intero mercato di app e dispositivi promette di tradurre le lacrime in bisogni specifici. Lo studio condotto da Mathevon e colleghi ha monitorato 24 neonati con registratori automatici, raccogliendo 3.600 ore di registrazioni e quasi 40.000 "sillabe" di pianto. Gli algoritmi di intelligenza artificiale hanno fallito nel distinguere la causa del pianto più di quanto farebbe il caso: la percentuale di successo era solo del 36 per cento. Anche i genitori che conoscevano bene i propri figli non hanno fatto meglio: il tasso di identificazione della causa del pianto era intorno al 35 per cento. In altre parole, non esistono segnali acustici affidabili che permettano di interpretare la ragione del pianto. "Il pianto è un campanello d'allarme. La conoscenza del contesto è ciò che permette di decifrarlo".

L'abilità di rispondere efficacemente al pianto è quindi un processo di apprendimento, non un istinto innato. La ricerca ha infatti mostrato come sia la quantità di tempo trascorsa con il bambino e l'esperienza diretta a determinare la capacità di riconoscere i segnali più sottili e intervenire adeguatamente, indipendentemente dal genere del caregiver.

Il contesto è l’alleato più utile per comprendere il motivo per cui il bambino sta piangendo
Il contesto è l’alleato più utile per comprendere il motivo per cui il bambino sta piangendo

Le cause di pianto più comuni e riconoscibili

Sebbene il pianto non traduca automaticamente bisogni specifici, alcune cause sono comunemente riconoscibili attraverso il contesto e l’esperienza:

  • Fame: se è passato un intervallo significativo dall’ultima poppata, il pianto può indicare il bisogno di nutrirsi.
  • Disagio fisico: pannolino bagnato, vestiti stretti o temperatura sbagliata spesso generano pianti meno intensi ma persistenti.
  • Dolore o malessere improvviso: vaccinazioni, coliche o cadute provocano pianti ruvidi, caotici e di alto livello di stress.
  • Bisogno di contatto: alcuni neonati richiedono il contatto fisico e il pianto serve a segnalare solitudine o insicurezza.
  • Stanchezza: un pianto accompagnato da segni di irritabilità può indicare sonnolenza o sovrastimolazione.

In tutti i casi, il segreto per rispondere efficacemente non è decifrare il pianto come un codice universale, ma osservare il contesto e intervenire con attenzione, valutando le esigenze del bambino attraverso l’esperienza e l’intuito supportato dai fatti. Lo studio di Mathevon, ripeso anche dal quotidiano The Independent, ribalta così uno dei miti più persistenti sulla prima infanzia e  libera i genitori dall'ansia di dover sempre indovinare, valorizzando invece l’osservazione attenta, la collaborazione e l’esperienza condivisa nella cura dei neonati.

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