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Perché non dovremmo chiamare “cattivi” i nostri figli: “Le etichette influenzano il comportamento”

Usare parole come “cattivo” o “monello” può avere un impatto profondo sull’autostima dei bambini. Psicologi e pedagogisti invitano a riflettere sul linguaggio quotidiano: meglio correggere il comportamento senza colpevolizzare, per favorire un clima di sicurezza emotiva e un legame educativo sano.
A cura di Niccolò De Rosa
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Spesso, senza rendercene conto, usiamo parole in modo superficiale, talvolta anche con le migliori intenzioni, senza pensare all’impatto che possono avere. Nel rapporto con i bambini, però, certe espressioni rischiano di trasformarsi in vere e proprie etichette, capaci di influenzare profondamente la loro percezione di sé e il loro comportamento. Tra queste ci sono le parole "cattivo" o "monello", spesso usate per descrivere un bambino vivace o irrequieto. Dietro questa abitudine si celano però riflessioni importanti di natura psicologica e pedagogica, che invitano genitori ed educatori a riflettere con attenzione sul linguaggio quotidiano, perché ogni parola porta con sé un significato che può essere più profondo di quanto si immagini.

La questione, recentemente sollevata nel corso di un podcast inglese dalla giornalista Kate Silverton, ex conduttrice televisiva e oggi consulente per l’infanzia, non è affatto banale, anche perché i bambini tendono a interiorizzare i giudizi che vengono loro rivolti, anche quelli pronunciati a cuor leggero. Il rischio è, pertanto, che sentendosi dire ripetutamente di essere stato "cattivo", il piccolo finisca per crederci davvero, sviluppando un’immagine negativa di sé.

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Il peso delle parole nell’educazione

Come ricordato da Silverton i bambini non sono quasi mai consapevoli delle loro azioni in modo razionale, perché il loro cervello è ancora in fase di sviluppo. Rimproverarli usando l'aggettivo "cattivo", rischia quindi di marchiarli ingiustamente come persone invece che segnalare un comportamento specifico.

Sul tema è intervenuta anche la psicologa clinica Patapia Tzotzoli, che in un recente contributo comparso sull'HuffPost Uk ha confermato come il linguaggio abbia un impatto profondo sui più giovani, evidenziano però quanto il contesto e il tono siano fattori assolutamente determinanti. Un genitore che usa la parola "cattivo" con rabbia dopo un episodio difficile comunica un messaggio diverso rispetto a chi la usa con leggerezza e sorriso durante un gioco. La soluzione sta pertanto nel concentrarsi sul comportamento invece che sull’identità. Espressioni come "questa scelta non è stata utile" o "questo comportamento non è stato giusto" evitano di colpevolizzare il bambino e favoriscono un clima di sicurezza emotiva. Questo tipo di linguaggio, secondo la psicologa, favorisce il mantenimento di un legame solido tra genitore e figlio, indispensabile per uno sviluppo emotivo equilibrato e per una cooperazione duratura.

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Un esempio pratico: come educare senza colpevolizzare

Immaginiamo un bambino che rompe un giocattolo in preda alla rabbia. Invece di dire "cattivo" o "sei  unmonello", un genitore potrebbe è prima di tutto fare un bel respiro – la rabbia è normale, ma non deve inquinare l'interventi educativo – e validare i sentimenti del piccolo, sottolineando però quanto il comportamento appena mostrato sia censurabile: "Ok, capisco tu sia arrabbiato, ma c'era bisogno di rompere il gioco per dimostrarlo?". Questo approccio non solo segnala al piccolo che è stato fatto qualcosa che non deve essere ripetuto, ma mantiene viva la relazione, evitando il rischio di far sentire il bambino cattivo o sbagliato.

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