No, non è vero che ci sono troppe diagnosi di ADHD: cosa è cambiato

Negli ultimi anni si è parlato sempre più spesso di ADHD, il cosiddetto disturbo da deficit di attenzione e iperattività, come di un fenomeno in costante crescita, sia tra i bambini sia tra gli adulti. Secondo il Centers for Disease Control and Prevention, l'agenzia federale statunitense che si occupa di salute pubblica, nel 2022 il numero di bambini tra i 3 e i 17 anni con una diagnosi era superiore di oltre un milione rispetto al 2016 e anche in Italia il trend appare in aumento, sebbene la mancanza di un database nazionale impedisce di avere a disposizione dati ufficiali. Molto spesso queste diagnosi si accompagnano a richieste di valutazioni specialistiche da parte di scuole, genitori e medici di base in modo da dotare i piccoli di adeguati strumenti compensativi per supportarli nell'apprendimento.
Tra i non addetti ai lavori, questa tendenza ha però cominciato a sollevare perplessità e preoccupazioni: come mai, si chiedono alcuni, se fino a qualche anno fa era molto raro conoscere qualcuno che avesse l'ADHD – che, è bene ricordarlo, è un disturbo del neurosviluppo che comporta grandi difficoltà di concentrazione e iperattività/impulsività – ora le diagnosi sembrano piovere copiosamente sulle teste di bambini e ragazzi? A questa domanda hanno provato a rispondere Carol Mathews, docente di Psichiatria all’Università della Florida, e Stephen Faraone, professore di psichiatria alla SUNY Upstate Medical University (New York), che in un articolo pubblicato sul sito The Conversation chiariscono la questione: "Il timore di una sovradiagnosi è spesso frutto di un fraintendimento sul funzionamento reale dell'ADHD".
L'ADHD non è un interruttore
Il primo errore, spiegano i due studiosi, è pensare all’ADHD come a una condizione che o si ha o non si ha, come un interruttore acceso o spento. In realtà, il disturbo si manifesta lungo uno spettro di casi e variabili, proprio come accade per la pressione sanguigna: alcuni individui presentano pochi sintomi, altri un livello moderato, altri ancora una forma più severa. Questo significa che non esiste un confine netto tra chi ha l'ADHD e chi non ce l'ha. Inoltre, la gravità dei sintomi può variare nel tempo e cambiare con le circostanze. "I sintomi peggiorano quando aumentano le sfide della vita", ricordano Mathews e Faraone.

Un bambino con difficoltà di concentrazione può pertanto cavarsela senza troppi problemi alle elementari, ma incontrare maggiori ostacoli nel passaggio alla scuola media, quando aumentano la complessità delle materie e le richieste organizzative. Allo stesso modo, un adulto con una forma lieve può gestire i sintomi durante i periodi di relax, ma sentirli esplodere quando dorme troppo poco o si trova sotto stress sul luogo di lavoro.
Un disturbo che evolve con l'età
L'ADHD, continuano a spiegare i due professori, si manifesta nell'infanzia e tende a raggiungere la massima espressione tra i 9 e i 12 anni, periodo in cui in genere arriva anche la diagnosi. In molti casi i sintomi si attenuano con la maturazione cerebrale, intorno ai 25 anni, ma non scompaiono del tutto. Esistono poi condizioni che possono amplificarne gli effetti, come disturbi legati all'ansia o alla depressione, lo stress cronico o uso di sostanze come cannabis o sedativi. Questi fattori non solo peggiorano i sintomi in chi ha già una diagnosi, ma possono anche far emergere una forma latente della condizione. La buona notizia, spiegano Mathews e Faraone, è però che, eliminando o trattando le cause e i fattori "di rischio" esterni, i sintomi possono ridursi o addirittura scomparire. L'ADHD, insomma, non è insomma una patologia cronica, ma un fenomeno dinamico che interagisce con l’ambiente e lo stile di vita.
Perché i dati non parlano di sovradiagnosi
Per stabilire una diagnosi di ADHD, gli specialisti seguono criteri precisi: nei bambini devono essere presenti almeno sei sintomi di disattenzione, iperattività o impulsività. Negli adulti, invece, bastano cinque segnali, ma riscontrati già nell'infanzia. Ad ogni modo, devono causare problemi significativi in almeno due contesti della vita quotidiana – a casa, a scuola o sul lavoro.

Secondo gli studi epidemiologici citati dai due studiosi, la prevalenza "rigorosa" del disturbo (che comprende la percentuale delle persone che presentano tutti i criteri per l'ADHD) è del 5 per cento nei bambini, del 3 per cento nei giovani adulti e scende sotto l'1 per cento dopo i 60 anni. Tuttavia, la prevalenza "diagnosticata", cioè quella rilevata "sul campo" da operatori sanitari, oscilla tra il 7,5 per cento e l'11 per cento nei minori. Questa discrepanza ha spinto alcuni a sostenere che l’ADHD sia sovradiagnosticato. Mathews e Faraone però non sono d’accordo: "La differenza riflette soprattutto il riconoscimento di forme più lievi che in passato passavano inosservate. In pratica, molti pazienti non soddisfano tutti i criteri "ufficiali", ma sperimentano comunque un disagio reale che compromette scuola, lavoro o relazioni. Per questo, spiegano gli autori, la diagnosi può essere comunque appropriata.
Trattare o non trattare? La risposta è personalizzare
Chi teme la sovradiagnosi teme soprattutto gli effetti collaterali dei farmaci o l’uso improprio di risorse. Ma le ricerche dimostrano che il vero rischio è l'opposto, ed è dato dalla sottodiagnosi e dalla mancata cura. Un ADHD non trattato può infatti compromettere seriamente il proprio rendimento scolastico – con ripercussioni sul futuro professionale – la propria stabilità emotiva e, in definitiva, la qualità della vita.
Questo non significa però che ogni forma lieve richieda per forza un trattamento farmacologico. Nei casi meno gravi, sottolineano i due studiosi, spesso bastano interventi ambientali o comportamentali, come migliorare la qualità del sonno, ridurre lo stress, modificare la disposizione in classe o adottare strategie organizzative più efficaci. L'obiettivo a cui aspirare deve pertanto essere un approccio flessibile e personalizzato che tenga conto dell’evoluzione del disturbo nel tempo. In alcuni momenti può servire una terapia farmacologica. In altri, semplici aggiustamenti dello stile di vita. "Ciò che conta è valutare quanto i sintomi incidono sulla vita quotidiana e adattare il trattamento di conseguenza", concludono Mathews e Faraone, specificando come la diagnosi non sia affatto una moda, ma una condizione complessa e variabile, che deve essere compresa appieno per poter offrire benefici concreti a chi ne è soggetto.