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No, non è vero che ci sono troppe diagnosi di ADHD: cosa è cambiato

Negli ultimi anni le diagnosi di ADHD – disturbo da deficit di attenzione e iperattività – sono in costante aumento, ma secondo due professori americani, ciò non significa affatto che il disturbo venga diagnosticato con troppa facilità. Come spiegano gli esperti Carol Mathews e Stephen Faraone, la condizione si manifesta infatti con modalità differenti e può variare nel tempo. Più che un’etichetta rigida, l’ADHD risulta dunque una condizione dinamica che interagisce con ambiente e stile di vita, richiedendo interventi personalizzati e flessibili.
A cura di Niccolò De Rosa
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Negli ultimi anni si è parlato sempre più spesso di ADHD, il cosiddetto disturbo da deficit di attenzione e iperattività, come di un fenomeno in costante crescita, sia tra i bambini sia tra gli adulti. Secondo il Centers for Disease Control and Prevention, l'agenzia federale statunitense che si occupa di salute pubblica, nel 2022 il numero di bambini tra i 3 e i 17 anni con una diagnosi era superiore di oltre un milione rispetto al 2016 e anche in Italia il trend appare in aumento, sebbene la mancanza di un database nazionale impedisce di avere a disposizione dati ufficiali. Molto spesso queste diagnosi si accompagnano a richieste di valutazioni specialistiche da parte di scuole, genitori e medici di base in modo da dotare i piccoli di adeguati strumenti compensativi per supportarli nell'apprendimento.

Tra i non addetti ai lavori, questa tendenza ha però cominciato a sollevare perplessità e preoccupazioni: come mai, si chiedono alcuni, se fino a qualche anno fa era molto raro conoscere qualcuno che avesse l'ADHD – che, è bene ricordarlo, è un disturbo del neurosviluppo che comporta grandi difficoltà di concentrazione e iperattività/impulsività – ora le diagnosi sembrano piovere copiosamente sulle teste di bambini e ragazzi? A questa domanda hanno provato a rispondere Carol Mathews, docente di Psichiatria all’Università della Florida, e Stephen Faraone, professore di psichiatria alla SUNY Upstate Medical University (New York), che in un articolo pubblicato sul sito The Conversation chiariscono la questione: "Il timore di una sovradiagnosi è spesso frutto di un fraintendimento sul funzionamento reale dell'ADHD".

L'ADHD non è un interruttore

Il primo errore, spiegano i due studiosi, è pensare all’ADHD come a una condizione che o si ha o non si ha, come un interruttore acceso o spento. In realtà, il disturbo si manifesta lungo uno spettro di casi e variabili, proprio come accade per la pressione sanguigna: alcuni individui presentano pochi sintomi, altri un livello moderato, altri ancora una forma più severa. Questo significa che non esiste un confine netto tra chi ha l'ADHD e chi non ce l'ha. Inoltre, la gravità dei sintomi può variare nel tempo e cambiare con le circostanze. "I sintomi peggiorano quando aumentano le sfide della vita", ricordano Mathews e Faraone.

L’ADHD di solito si manifesta già durante l’infanzia, tuttavia i suoi sintomi possono essere attenuati e mostrarsi con maggiore evidenza negli anni successivi
L’ADHD di solito si manifesta già durante l’infanzia, tuttavia i suoi sintomi possono essere attenuati e mostrarsi con maggiore evidenza negli anni successivi

Un bambino con difficoltà di concentrazione può pertanto cavarsela senza troppi problemi alle elementari, ma incontrare maggiori ostacoli nel passaggio alla scuola media, quando aumentano la complessità delle materie e le richieste organizzative. Allo stesso modo, un adulto con una forma lieve può gestire i sintomi durante i periodi di relax, ma sentirli esplodere quando dorme troppo poco o si trova sotto stress sul luogo di lavoro.

Un disturbo che evolve con l'età

L'ADHD, continuano a spiegare i due professori, si manifesta nell'infanzia e tende a raggiungere la massima espressione tra i 9 e i 12 anni, periodo in cui in genere arriva anche la diagnosi. In molti casi i sintomi si attenuano con la maturazione cerebrale, intorno ai 25 anni, ma non scompaiono del tutto. Esistono poi condizioni che possono amplificarne gli effetti, come disturbi legati all'ansia o alla depressione, lo stress cronico o uso di sostanze come cannabis o sedativi. Questi fattori non solo peggiorano i sintomi in chi ha già una diagnosi, ma possono anche far emergere una forma latente della condizione. La buona notizia, spiegano Mathews e Faraone, è però che, eliminando o trattando le cause e i fattori "di rischio" esterni, i sintomi possono ridursi o addirittura scomparire. L'ADHD, insomma, non è insomma una patologia cronica, ma un fenomeno dinamico che interagisce con l’ambiente e lo stile di vita.

Perché i dati non parlano di sovradiagnosi

Per stabilire una diagnosi di ADHD, gli specialisti seguono criteri precisi: nei bambini devono essere presenti almeno sei sintomi di disattenzione, iperattività o impulsività. Negli adulti, invece, bastano cinque segnali, ma riscontrati già nell'infanzia. Ad ogni modo, devono causare problemi significativi in almeno due contesti della vita quotidiana – a casa, a scuola o sul lavoro.

La diagnosi dell’ADHD è un procedimento complesso
La diagnosi dell’ADHD è un procedimento complesso

Secondo gli studi epidemiologici citati dai due studiosi, la prevalenza "rigorosa" del disturbo (che comprende la percentuale delle persone che presentano tutti i criteri per l'ADHD)  è del 5 per cento nei bambini, del 3 per cento nei giovani adulti e scende sotto l'1 per cento dopo i 60 anni. Tuttavia, la prevalenza "diagnosticata", cioè quella rilevata "sul campo" da operatori sanitari, oscilla tra il 7,5 per cento e l'11 per cento nei minori. Questa discrepanza ha spinto alcuni a sostenere che l’ADHD sia sovradiagnosticato. Mathews e Faraone però non sono d’accordo: "La differenza riflette soprattutto il riconoscimento di forme più lievi che in passato passavano inosservate. In pratica, molti pazienti non soddisfano tutti i criteri "ufficiali", ma sperimentano comunque un disagio reale che compromette scuola, lavoro o relazioni. Per questo, spiegano gli autori, la diagnosi può essere comunque appropriata.

Trattare o non trattare? La risposta è personalizzare

Chi teme la sovradiagnosi teme soprattutto gli effetti collaterali dei farmaci o l’uso improprio di risorse. Ma le ricerche dimostrano che il vero rischio è l'opposto, ed è dato dalla sottodiagnosi e dalla mancata cura. Un ADHD non trattato può infatti compromettere seriamente il proprio rendimento scolastico – con ripercussioni sul futuro professionale – la propria stabilità emotiva e, in definitiva, la qualità della vita.

Questo non significa però che ogni forma lieve richieda per forza un trattamento farmacologico. Nei casi meno gravi, sottolineano i due studiosi, spesso bastano interventi ambientali o comportamentali, come migliorare la qualità del sonno, ridurre lo stress, modificare la disposizione in classe o adottare strategie organizzative più efficaci. L'obiettivo a cui aspirare deve pertanto essere un approccio flessibile e personalizzato che tenga conto dell’evoluzione del disturbo nel tempo. In alcuni momenti può servire una terapia farmacologica. In altri, semplici aggiustamenti dello stile di vita. "Ciò che conta è valutare quanto i sintomi incidono sulla vita quotidiana e adattare il trattamento di conseguenza", concludono Mathews e Faraone, specificando come la diagnosi non sia affatto una moda, ma una condizione complessa e variabile, che deve essere compresa appieno per poter offrire benefici concreti a chi ne è soggetto.

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