“Nel mondo digitale gli adolescenti creano un falso sé che li rende fragili”: l’avvertimento di Alberto Pellai

Pressioni sociali soverchianti, ansia di apparire, paura di non essere all’altezza di standard sempre più irrealistici. In un mondo iperconnesso, dove la vita si misura a colpi di like e follower, crescono i casi di disagio e depressione tra gli adolescenti. Sono ragazzi costantemente online, ma spesso più soli e fragili che mai. Il paradosso della società digitale è che, mentre offre canali infiniti di contatto e visibilità, può impoverire proprio quelle competenze emotive e relazionali di cui i giovani avrebbero più bisogno, arrivando ad affacciarsi all'età adulta senza gli adeguati "anticorpi" per resistere alle sfide della vita. Di questa nuova fragilità – alimentata da social network e mondo virtuale – Fanpage.it ha parlato con Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università degli Studi di Milano e autore di numerosi libri sulla genitorialità, tra cui Allenare la vita (2024), che affronta proprio il tema dell’educazione nell’era digitale.
Lei parla spesso di adolescenti "iperconnessi" ma emotivamente fragili. Quali sono, secondo la sua esperienza, le principali ragioni di questa fragilità?
Questi ragazzi sono la prima generazione che, invece di allenarsi alla vita reale, passa moltissimo tempo a vivere dentro il mondo virtuale. È una vera e propria deprivazione sociale: l’adolescente ha un bisogno assoluto di relazioni e di appartenenza al gruppo, ma trascorre ore in attività virtuali senza reale valore evolutivo – come scrollare o videogiocare. Non sviluppano competenze utili per la vita vera. Inoltre queste attività hanno un potenziale di dipendenza molto alto: più le fai, più vuoi continuare. Questo demotiva la spinta verso le attività reali. Se vent’anni fa il conflitto col genitore era per il motorino, simbolo di libertà e scoperta del mondo, oggi è il genitore che dice al figlio chiuso in camera: "Se non esci, ti stacco il Wi-Fi". È la fotografia di un’adolescenza che non fa ciò per cui è programmata.

Cosa accade nella mente di un ragazzo che misura il proprio valore attraverso like e follower? Quali ripercussioni può avere questa ansia sul futuro?
Per sentirsi di appartenere a qualcosa oggi un ragazzo deve entrare in una community virtuale, che però è l’esatto opposto di una comunità. Non c’è vera appartenenza: ci si espone in un’arena in cui si viene giudicati da sconosciuti. Questo aumenta la vulnerabilità e mina la capacità di gestire la realtà. È una perdita di controllo che disorienta: invece di costruire uno sguardo autentico su di sé, si vive in costante allerta per lo sguardo degli altri. L’adolescenza dovrebbe essere il tempo in cui un ragazzo crea la sua identità, impara chi vuole essere. Ma sui social deve raccontare se stesso solo per piacere agli altri, e finisce per generare un "falso sé". Infine vedono ogni giorni narrazioni di vite perfette, fake, che diventano modelli irraggiungibili: il principio di realtà non esiste più o è completamente falsato. E questo può essere devastante per lo sviluppo delle proprie sicurezze.
I genitori come possono aiutare i figli in questo contesto, considerando che anche loro spesso sono vittime di dinamiche simili?
Devono innanzitutto modellare un buon comportamento digitale. Se un figlio vede un genitore sempre sullo smartphone, quello diventa un modello aspirazionale. Poi serve sostenere la socio relazionalità reale: far vedere che la famiglia attribuisce valore alla socialità vera. Invitare altre famiglie a cena, viaggiare insieme, condividere momenti. È un segnale concreto che la dimensione relazionale conta davvero. Terzo punto: ritardare il più possibile l’ingresso precoce nel digitale. Troppi genitori spingono inconsapevolmente i bambini verso smartphone e tablet, salvo poi accorgersi di averli intrappolati in una vita non adatta ai loro bisogni evolutivi.
I casi recenti di maturandi che contestano l’esame o accusano gli insegnanti di non capirli sono sintomi di fragilità, di scarsa preparazione alla "vita vera"?
Abitare il principio di realtà significa saper stare anche in una realtà imperfetta. È lì che si impara a cambiarla davvero. Un ragazzo che vuole cambiare le regole della maturità dovrebbe farlo diventando un docente, non saltando la prova. Chi non condivide la gestione del proprio esame dovrebbe dirlo lì, davanti alla commissione. Non sui social. Nella vita si affrontano ingiustizie che non si scelgono: la mediatizzazione estrema dovrebbe essere riservata a eventi davvero gravi. Non penso che prendere 98 alla maturità significhi essere umiliati. Il successo nella vita non è il 10 e lode: è sentirsi interi anche quando una prova sembra frantumarci. Bisogna imparare a stare nella frustrazione, a tollerare che l’altro non sia sempre perfettamente sintonizzato con noi. Se ogni divergenza dalla nostra aspettativa la chiamiamo umiliazione, finiamo per vivere in un eterno egocentrismo.