Mio figlio non va d’accordo con i compagni di classe: i consigli per aiutarlo

Può capitare che un bambino o un adolescente non riesca a integrarsi nel gruppo classe, fatichi a stringere amicizie o entri spesso in conflitto con i compagni. Si tratta di una situazione più comune di quanto si pensi e che, sebbene possa generare ansia nei genitori, fa parte del percorso di crescita sociale di ogni bambino. In questi casi, il compito di mamma e papà è delicato: sostenere il figlio senza sostituirsi a lui, ascoltarlo senza diventare invadenti, offrirgli strumenti per affrontare le difficoltà relazionali senza agire al suo posto.
L’errore più comune è infatti quello di voler intervenire direttamente — parlando con altri genitori o con gli insegnanti — nella speranza di risolvere il problema. Ma questo atteggiamento rischia di risultare controproducente, perché priva il bambino della possibilità di imparare a gestire da solo i rapporti sociali, riducendo la sua autostima e, nei casi peggiori, alimentando un senso di isolamento. "Aiutare i bambini a fare amicizia significa trovare il giusto equilibrio tra guida, incoraggiamento e spazio per gestire le situazioni sociali in modo indipendente", spiegava Sarah Clark, co-direttrice del Mott Poll Children’s Hospital (Università del Michigan), quando nel 2024 commentava il sondaggio realizzato dal suo team di ricerca che mostrava come molti adulti di oggi temano che i figli non abbiano abbastanza amici. Il ruolo del genitore dovrebbe essere pertanto quello di un osservatore attento e di una guida discreta, presente, ma non invadente, empatic0, ma non sostitutivo.
Mio figlio non va d’accordo con i compagni di classe: i consigli per i genitori
Per sostenere i figli in questo percorso, i genitori possono mettere in atto alcune strategie che favoriscono l'ascolto, la fiducia e lo sviluppo dell’autonomia emotiva.

- Ascoltare con attenzione, senza giudicare: prima di dare consigli o soluzioni, è importante ascoltare il bambino con calma, lasciandolo libero di raccontare cosa accade, come si sente, e perché, secondo lui, non riesce a inserirsi nel gruppo classe. Mostrare empatia, senza minimizzare né ingigantire la situazione, aiuta i figli a sentirsi accolti e compresi. Meglio evitare anche etichette come "sei troppo timido", che aumentano solo il senso di inadeguatezza. Meglio concentrarsi sui progressi e sui tentativi di miglioramento.
- Predisporre un dialogo sereno e costante: non servono interrogatori, ma momenti quotidiani in cui parlare apertamente — magari durante la cena o prima di dormire. Il dialogo continuo aiuta a capire se si tratta di piccoli litigi passeggeri o di un disagio più profondo.
- Riconoscere e valorizzare le sue qualità sociali: far notare al bambino le sue capacità di collaborazione, empatia o gentilezza rafforza la fiducia in se stesso e lo incoraggia a metterle in pratica anche a scuola.
- Ascoltare le sue "strategie": spesso i bambini sanno già come vorrebbero affrontare la situazione: ascoltare le loro idee e incoraggiarle li aiuta a sentirsi protagonisti del cambiamento.
- Offrire occasioni di socializzazione diverse: attività extrascolastiche, sport di squadra, laboratori o gruppi scout possono facilitare la nascita di nuove amicizie e rafforzare le competenze relazionali. Anche qui però madri e padri dovrebbero limitarsi a suggerire (anche con costanza) la partecipazione a simili appuntamenti, senza però arrivare mai a costringere il ragazzo.
- Collaborare con la scuola, ma senza sostituirsi al figlio: confrontarsi con gli insegnanti può essere utile per capire se il disagio è circoscritto o più ampio, ma l’obiettivo non deve mai essere quello di “forzare” rapporti o di risolvere i conflitti al posto del bambino.
- Dare l'esempio: i figli imparano osservando: vedere genitori capaci di gestire le relazioni e, soprattutto, i contrasti con calma e rispetto diventa un modello di riferimento prezioso.
Quando è meglio non intervenire
Come già accennato, non sempre intervenire è però la scelta giusta. Anzi, in molte circostanze, la miglior forma di aiuto è quella che lascia spazio all’esperienza diretta del bambino. Se i contrasti con i compagni rientrano nelle normali dinamiche scolastiche — piccoli litigi, gelosie o momentanee esclusioni — è preferibile osservare senza agire. Lasciare che il figlio trovi da solo un equilibrio lo aiuta a sviluppare capacità di problem solving, pazienza e autonomia relazionale.

Allo stesso modo, quando il bambino mostra di avere già le risorse per affrontare la situazione, o chiede semplicemente un consiglio e non un intervento, è importante rispettare il suo bisogno di indipendenza. Intromettersi, anche con le migliori intenzioni, può farlo sentire giudicato o, peggio, incapace di cavarsela da solo. In certi casi, poi, l’intervento diretto dei genitori rischia di esporlo ulteriormente: gli altri bambini potrebbero percepire quella "protezione" come un’ingerenza, isolandolo ancora di più. Diverso è però il discorso se emergono segnali di esclusione sistematica, prepotenze o episodi di bullismo: in queste circostanze, la famiglia deve intervenire tempestivamente, coinvolgendo la scuola e, se necessario, figure professionali.
Trovare il giusto equilibrio tra presenza e distanza è forse la prova più complessa della genitorialità. Ma è anche quella che insegna ai figli la lezione più importante: che non sono soli, ma che la loro forza nasce dalla capacità di affrontare il mondo con le proprie gambe, sapendo di avere alle spalle uno sguardo che li sostiene con fiducia.