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“La dislessia non è una malattia”: la pedagogista spiega perché è ora di cambiare prospettiva sui DSA

La dislessia è da anni un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) riconosciuto, ma ancora oggi resta necessario parlarne per superare stereotipi e promuovere una scuola davvero inclusiva. In occasione della Settimana Nazionale della Dislessia, Fanpage.it ha intervistato la pedagogista Barbara Urdanch, che invita a riconoscere i segnali precoci e a cambiare prospettiva: “Bambini e genitori non devono più sentirsi sbagliati”.
Intervista a Barbara Urdanch
Professoressa a contratto di Pedagogia e Didattica speciale presso l'Università di Torino
A cura di Niccolò De Rosa
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Dal 6 al 12 ottobre si celebra la Settimana Nazionale della Dislessia, giunta ormai alla sua decima edizione. Un appuntamento ormai consolidato, promosso dall'Associazione Italiana Dislessia (AID), con l’obiettivo di sensibilizzare su cosa siano i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) e promuovere una scuola e una società realmente inclusive. Tra i protagonisti dell’edizione di quest’anno c'è Barbara Urdanch, pedagogista, docente a contratto di Pedagogia e Didattica speciale all'Università di Torino, formatrice AID e membro del Comitato scientifico di MyEdu, che l'8 ottobre sarà al MUBA, il Museo dei Bambini di Milano, per un incontro formativo organizzato da MyEdu dove, tra le altre cose, si parlerà dell'importanza di costruire comunità inclusive e di scardinare una volta per tutto i pregiudizi, tutt'ora duri a morire, riguardo i DSA.
"La dislessia non è una condizione, ma una caratteristica", premette Urdanch a Fanpage.it. "Parlare di condizione implica il concetto di patologia, di malattia. In realtà, la dislessia è una caratteristica dell’apprendimento: una modalità diversa di acquisire e organizzare le informazioni".

Quali sono i segnali di dislessia che un genitore o un insegnante può notare nei primi anni di scuola?

Anche in questo caso è bene specificare che si parla di segnali predittivi, non di sintomi. Non sono segnali di malattia, ma indizi che possono suggerire una diversa modalità di apprendimento, una neurodivergenza. Questi segnali si possono osservare già nell'ultimo anno della scuola dell'infanzia e servono a richiamare l'attenzione dell'adulto all'osservazione attenta e pedagogica di tutti i bambini. Tra i segnali predittivi ci sono le fragilità nelle funzioni esecutive, cioè nei processi cognitivi di base come la memoria di lavoro, la pianificazione, la flessibilità cognitiva, il controllo e l'inibizione. Sono quelle funzioni che ci permettono di organizzare e completare un compito. Un esempio? Quando la maestra dice: "Vai nell'armadio e prendi il quaderno blu", e dopo tre secondi il bambino si gira e chiede: "Cos'è che devo fare, maestra?". È un piccolo segnale di difficoltà nella memoria di lavoro. Poi ci sono i fattori di rischio, che non riguardano il bambino in sé ma il contesto: ad esempio la familiarità per i DSA. Non esiste un gene della dislessia, ma sappiamo che, se un parente ne è interessato, aumenta la probabilità che si manifesti anche in un figlio.

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Perché è ancora importante spiegare che un bambino dislessico non è un bambino “stupido”?

Perché nella nostra cultura la diversità è ancora associata alla mancanza. Pensiamo che chi apprende in modo diverso sia "meno capace". Ma la neurodiversità, come dice la sociologa Judy Singer, è una variazione naturale del cervello umano. La maggioranza delle persone ha i capelli castani, neri o biondi: sono i neurotipici. Qualcuno ha i capelli rossi: è meno comune, ma non per questo anormale. È semplicemente una variazione. Lo stesso vale per la dislessia. Non è una patologia, ma un modo diverso di funzionare. Il problema è lo sguardo con cui osserviamo questi bambini. Molti pensano ancora: "Fa fatica, quindi è pigro o svogliato". Invece, spesso la difficoltà è nel modo in cui il cervello elabora le informazioni. Io dico sempre che la scuola dovrebbe essere come un buffet. Se mettiamo sul tavolo tante possibilità – frutta, verdure, carne, piatti freddi – ciascuno può nutrirsi secondo le proprie esigenze. Così dovrebbe essere l'apprendimento: una proposta varia, dove ogni bambino trova il proprio modo di imparare.

Quali strategie possono mettere in campo gli adulti per intercettare questi segnali?

La prima strategia è osservare senza etichettare. L'adulto – genitore o insegnante – deve avere uno sguardo pedagogico, non clinico. Non possiamo "diagnosticare" un disturbo a quattro anni, ma possiamo osservare e intervenire. Se un bambino ha difficoltà a memorizzare le sequenze, a recitare una filastrocca o a vestirsi da solo, non dobbiamo spaventarci. Possiamo inserire attività di potenziamento all'interno della didattica quotidiana, lavorando sulle funzioni esecutive e sui prerequisiti dell'apprendimento. L'importante è farlo presto: nei primi anni di vita, il cervello è in una fase di grande neuroplasticità. Ciò che potenziamo allora, lo recuperiamo. Quello che trascuriamo, diventa più difficile da affrontare in età scolare o adolescenziale.

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Quali sono i rischi di non intervenire per tempo?

Il rischio principale è che il bambino si senta "sbagliato". Molti bambini con DSAvivono una condizione di impotenza appresa: pensano di essere stupidi perché la società glielo fa credere. Quando non riusciamo ad apprendere, è come se non riuscissimo a nutrirci. Non moriamo, ma la nostra vita ne risente: arrivano le bocciature, la frustrazione, la perdita di autostima. Ecco perché è così importante riconoscere e accogliere la diversità: non per etichettare, ma per permettere a ciascuno di trovare il proprio modo di apprendere.

In questo scenario, le nuove tecnologie possono essere un alleato prezioso?

Assolutamente sì. Oggi è molto più facile essere inclusivi grazie alla multimedialità e alla multimodalità. Gli strumenti digitali consentono di utilizzare più canali comunicativi e di compensare le fragilità nei processi automatizzati. La tecnologia non è un "facilitatore", come spesso si pensa, ma un equalizzatore: permette a tutti di raggiungere lo stesso obiettivo con i propri mezzi. Chi ha una difficoltà di lettura, per esempio, può usare la sintesi vocale e concentrare le proprie risorse cognitive sulla comprensione, invece che sulla decodifica del testo. Così la tecnologia diventa uno strumento di equità, non di vantaggio».

È vero che oggi ci sono “troppe” certificazioni di dislessia?

No, non è vero. I DSA ci sono sempre stati. È cambiato lo sguardo. Oggi al Nord Italia le diagnosi sono intorno al 7-8 per cento, mentre al Sud si fermano al 2 per cento. Non significa che al Sud ci siano meno bambini dislessici, ma che c’è meno attenzione e meno capacità diagnostica. La svolta è arrivata con la Legge 170 del 2010, che quest’anno compie 15 anni. È una legge di una potenza pedagogica straordinaria, perché dice una cosa semplice: riconosce l’esistenza dei disturbi specifici dell’apprendimento. Nessun bambino è felice di leggere male o non sapere le tabelline. Riconoscere la difficoltà significa dire: "Esiste, e posso aiutarti". È cambiata la consapevolezza, e per fortuna. Non ci sono più bambini pigri, ma adulti che imparano a guardare meglio.

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