Crescere un figlio con autismo, la storia di Serena: “Chiedere aiuto è fondamentale, ma lo Stato deve esserci”

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Ricevere una diagnosi di disturbo dello spettro autistico per un figlio piccolo significa entrare, spesso senza preavviso, in un mondo complesso, fatto di terapie, attese, ostacoli burocratici e solitudini non dette. Non tutte le famiglie sono pronte o sostenute nel percorso che segue quel momento iniziale, così spiazzante e doloroso.
Serena – nome di fantasia, come quelli di tutti i membri della sua famiglia citati nell'articolo – ha deciso di raccontare la sua esperienza a Fanpage.it per rompere quel silenzio, condividere paure e conquiste e offrire un sostegno ideale a chi si trova a vivere le stesse difficoltà. Il suo è anche un appello a non arrendersi, a chiedere aiuto e a pretendere risposte da un sistema che, troppo spesso, lascia sole le famiglie. "La nostra era una famiglia normale, con una bambina tranquilla, vivace ma serena. Chiara, che oggi ha 17 anni, non ci ha mai creato problemi", racconta Serena. Poi, nel 2016, è arrivato Marco, cambiando tutto. "Ci siamo trovati davanti a una realtà molto complessa. Era un bambino difficile già dai tempi dell'asilo: lanciava oggetti dalla finestra, non ci ascoltava. Non capivamo il perché e all’inizio non pensavamo all’autismo. Semplicemente non lo conoscevamo".
La scoperta è avvenuta al primo anno di scuola materna. "Ricordo che il primo giorno ho detto alle maestre che non riuscivo a gestirlo. Dopo qualche settimana mi hanno chiamata e mi hanno detto di portarlo a fare una visita neuropsichiatrica infantile. Ho pianto davanti a loro. Sentire di dover andare da un a neuropsichiatra per un bambino di tre anni mi ha spaventato".
Come avete ricevuto la diagnosi?
Il verdetto venne fatto al Besta di Milano un ospedale serio, ma il momento è stato durissimo. Due medici mi hanno detto che Marco rientrava nello spettro autistico. Mi è crollato il mondo addosso. Fino a quel momento avevo conosciuto l'autismo solo al cinema e pensavo che fosse qualcosa tipo ciò che viene mostrato nel film Rain Man. A quel punto ho fatto quello che tutti sconsigliano e sono andata su Internet a cercare informazioni. Ho pianto per notti intere. Anche per mio marito è stata una bella botta. Diceva sempre: "Affronteremo la cosa", lo liquidava come vivacità da maschio. Poi, vedendo gli specialisti, ha capito davvero che era autismo. Anche per lui è stato uno choc.

Che percorso ha iniziato Marco?
Quando ricevemmo la diagnosi era estate. Passavo ore al telefono per trovare un neuropsichiatra. Alla fine ho preso appuntamento al Don Gnocchi per settembre. Poi ho iniziato a chiamare i centri per le terapie. "L’abilità", onlus che si occupa di seguire e supportare bambini con disabilità e le loro famiglie, mi ha risposto subito: c’era un bambino che lasciava un posto libero e Marco l’ha preso. Da quel momento è iniziata tutta una nuova routine. Marco ha iniziato a sottoporsi a tre sedute individuali a settimana. Lo portavo sempre la mattina, prima del lavoro. Ho riorganizzato tutto. Io rientravo tardi la sera, mio marito preparava la cena. La coppia ha sofferto: non lo nego. Ci sono stati momenti difficili tra noi.
Quali sono stati i problemi più duri?
Le crisi di rabbia. Si buttava a terra, urlava, scappava. All’inizio non parlava nemmeno. Poi ha cominciato. Adesso legge e scrive, segue il programma di terza elementare. Era una diagnosi di livello tre, il più grave, ma ora con i dottori la stiamo rivalutando perché è migliorato molto.
Come hai vissuto tu questo percorso?
Ho fatto tanta fatica ad accettarlo. Mi sono sentita sola. Mi sono rimboccata le maniche. Rifarei tutto. Mio marito ha fatto ancora più fatica ad accettarlo. Ma pian piano ci siamo entrati, in questo mondo. Senza bugie né illusioni.
E Chiara, la sorella maggiore?
È sveglia. A undici anni mi ha detto "Mamma, Marco ha qualche problema". All’inizio cercavo di non dirle tutto per non spaventarla. Poi ho capito che dovevo parlarle chiaro. Non l’ho mai lasciata sola con lui all’inizio. Ora si vogliono bene: Marco la ascolta tantissimo. Posso lasciarli insieme anche un quarto d’ora quando serve.
Come vi ha aiutato il fatto di poter contare su un'associazione?
Alla "L'abilità" hanno accolto quando non sapevo a chi rivolgermi. Mi hanno aiutato con le sedute di Marco e con incontri per insegnarmi come gestire le crisi. Ho fatto anche sedute individuali per sfogarmi. Mi hanno ascoltata. Mi hanno insegnato che una mamma è fondamentale, ma non può farcela da sola. Grazie a loro, mi sono anche rivolta al Comune di Milano. Ora un educatore viene a casa una volta a settimana. Due ore soltanto, ma preziosissime. All’inizio Marco non lo accettava, adesso fa parte della famiglia. E "L’abilità" ha mandato un’operatrice per insegnarmi a gestirlo a casa. È stato fondamentale, ma non tutti hanno questa fortuna, anche perché in molti casi la risposta dello Stato latita.

Lo avete sperimentato sulla vostra pelle?
Io ho trovato un'associazione del privato sociale che, come molte altre realtà di questo tipo, si sostiene con la raccolta fondi e ridotti contributi pubblici e delle famiglie. Non tutti però possono permetterselo. Quando al momento della diagnosi ho contattato la UONPIA (Unità Operativa di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza, un servizio sanitario che si occupa della cura e riabilitazione dei disturbi neuropsichici in bambini e adolescenti, ndr) mi avevano prospettato una lista d'attesa di tre anni. Ad oggi non mi hanno più richiamato. Tre anni d'attesa per un bambino che avrebbe avuto bisogno di supporto e sostegno quasi ogni giorno. Senza l'associazione oggi Marco non avrebbe ottenuto tutti questi miglioramenti e saremmo disperati come il primo giorno.
Cosa diresti a chi si trova oggi al tuo posto?
Di non restare soli. Di non vergognarsi di chiedere aiuto. Nessuno ti prepara a una diagnosi così. Noi genitori ci rimbocchiamo le maniche perché vogliamo dare una vita dignitosa ai nostri figli. Ma da soli non ce la si fa. Servono strutture, educatori, persone che ti ascoltino e ti aiutino davvero.