Crescere nella violenza: lo studio che mostra gli effetti negativi già nei primi anni di vita

In molte parti del mondo i bambini crescono circondati dalla violenza, un elemento così presente da diventare parte dello sfondo quotidiano: lite dopo lite, sirene nella notte, tensioni in casa o per strada. È una realtà silenziosa, che raramente arriva sulle prime pagine, ma che lascia segni profondi nei più piccoli già prima che imparino a leggere o a scrivere. A ricordarlo è un nuovo lavoro scientifico illustrato sul sito The Conversation dalle ricercatrici Kirsten A. Donald, professoressa di neurologia pediatrica e sviluppo all’Università di Cape Town, e Lucinda Tsunga, psicologa. Le due studiose hanno sintetizzato i risultati di una ricerca pubblicata sulla rivisa Trauma, Violence, & Abuse, che indaga in che modo le prime esposizioni alla violenza influenzino lo sviluppo cognitivo ed emotivo dei bambini nei Paesi a basso e medio reddito.
La prima infanzia, dalla nascita agli otto anni, rappresenta infatti una fase decisiva per lo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale. Eppure la maggior parte della ricerca sulla violenza infantile si concentra su bambini già in età scolare o adolescenti, ignorando il periodo in cui la prevenzione avrebbe maggiore efficacia. Il team di cui le due studiose hanno fanno parte ha quindi deciso di colmare questa lacuna attraverso una revisione di 17 studi condotti in 20 Paesi e l'analisi dei dati del Drakenstein Child Health Study, uno studio di coorte che segue più di un migliaio bambini fin dalla nascita (gli studi di coorte si basano sull'osservazione di un gruppo di persone per un lungo periodo di tempo). "Capire cosa accade nei primissimi anni è fondamentale, perché è lì che si modellano le traiettorie di sviluppo", hanno spiegato Donald e Tsunga.
Violenza diffusa già nei primi anni di vita
I risultati della revisione sono inequivocabili: oltre il 70% degli studi considerati mostra un impatto negativo della violenza sullo sviluppo cognitivo dei bambini, coinvolgendo più di 27.000 piccoli sotto gli 11 anni, in quattro continenti. Il quadro è ancora più impressionante se si osserva da vicino la situazione sudafricana. A quattro anni e mezzo, l'83% dei bambini aveva già sperimentato qualche forma di violenza. La maggior parte aveva assistito a episodi nel proprio quartiere (74%), un terzo aveva visto violenza domestica (32%) e molti erano stati vittime dirette in famiglia (31%) o nella comunità (13%). Quasi la metà aveva vissuto più di un tipo di esposizione. "In molte realtà la violenza non rappresenta un'eccezione, ma un elemento normale dell'ambiente in cui i bambini crescono", hanno commentato le studiose.

Effetti immediati sulla salute mentale
Le analisi evidenziano che i bambini esposti a livelli più elevati di violenza manifestano già a cinque anni sintomi "interni", percepiti solo dai diretti interessati, come ansia, paure e tristezza, e sintomi "esterni", come una frequente aggressività, iperattività e comportamenti oppositivi. La combinazione più dannosa è però data dalla somma di violenza domestica e violenza diffusa all'interno della comunità dove il bambino cresce e si muove. In questi casi, l'esposizione multipla amplifica il rischio e anticipa difficoltà emotive e comportamentali. Stando a quanto emerso dall'analisi dei dati, questi segnali emergono prima dell’ingresso a scuola, influenzando la capacità di apprendere, di costruire legami e di affrontare il successivo sviluppo emotivo.
L’ampiezza del fenomeno rivela un problema che nessun intervento individuale può risolvere da solo. La violenza infantile assume caratteristiche di un’emergenza di sanità pubblica, che richiede risposte integrate e coordinate. L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha sviluppato strategie come il programma INSPIRE, che propone interventi multilivello per prevenire e contenere la violenza sulle donne e sui bambini.
Prevenire presto e agire su più livelli
La ricerca mostra con chiarezza che gli effetti della violenza emergono molto prima di quanto si pensasse. Per questo, intervenire solo quando compaiono difficoltà scolastiche o comportamentali significa arrivare tardi. La prevenzione deve partire nei primissimi anni di vita e coinvolgere tutti gli spazi in cui il bambino cresce, dalla la famiglia alla comunità, passando per i servizi sanitari ed educativi, fino alle politiche nazionali. Solo un approccio coordinato e trasversale può cambiare davvero la traiettoria di sviluppo dei più piccoli. A tal proposito, il team di cui le dottoresse Donald e Tsunga fanno parte ha suggerito cinque direzioni prioritarie.
- Identificazione precoce: servizi sanitari e comunitari dovrebbero includere lo screening dell’esposizione alla violenza nelle visite dell’infanzia.
- Supporto alle famiglie: programmi di prevenzione della violenza domestica e di sostegno alla genitorialità possono interrompere la catena di traumi.
- Riduzione della violenza nei quartieri: politiche di sicurezza, rigenerazione urbana e riforme del sistema di vigilanza vanno integrate con strategie per la salute mentale dei bambini.
- Centralità dell’infanzia nelle politiche pubbliche: governi e ONG devono inserire prevenzione e promozione del benessere infantile nei piani sanitari ed educativi.
- Monitoraggio continuo: dati più accurati permettono di valutare gli interventi e perfezionarli nel tempo.
Nonostante il quadro descritto sia preoccupante, le ricercatrici ricordano però che esistono numerose organizzazioni che già operano con efficacia per proteggere i bambini e contrastare la violenza sulle donne. Intervenire nei primi anni di vita può infatti offrire una possibilità concreta di cambiare le traiettorie di sviluppo e costruire comunità più sicure e sane.