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Come teatro e danza possono curare il disturbo da stress post traumatico nei bambini: cosa dice la ricerca

Una maxi-analisi di oltre 30 ricerche internazionali ha dimostrato come le disicipline artistiche (ballo, pittura, recitazione) possano effettivamente aiutare i bambini cresciuti in contesti geografici e sociali complessi a superare le conseguenze psicologiche di un evento traumatico,
A cura di Niccolò De Rosa
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Immagine di repertorio
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Un approccio semplice, accessibile e profondamente radicato nelle culture locali sembra offrire nuove possibilità di cura ai bambini che vivono le conseguenze di traumi e conflitti. A dirlo è un ampio studio condotto dall’Università di Oxford e pubblicato su Nature Mental Health ha analizzato 33 ricerche internazionali, coinvolgendo 4.587 giovani di 17 Paesi, per valutare l'efficacia dell'arteterapia – musica, danza, teatro, poesia e arti visive  – nel trattamento del disturbo da stress post-traumatico (PTSD). I risultati hanno infatti mostrato una riduzione significativa dei sintomi, indicando come l'arte possa effettivamente diventare un vero strumento clinico nei contesti laddove farmaci e psicoterapie non riescono ad arrivare.

Un fenomeno globale e risposte differenti

Almeno un quarto dei bambini nel mondo si trova a sperimentare un evento traumatico prima dell'età adulta. Oltre ai tanti bimbi che crescono in contesti violenti (Paesi colpiti dalla guerra o realtà socialmente ed economicamente degradate), fatalità come la perdita improvvisa di una figura familiare o una catastrofe naturale possono impattare pesantemente sulla psiche di ragazzi e ragazze. Le terapie validate in Occidente, come la psicoterapia individuale o le cure con antidepressivi, spesso non sono disponibili nei luoghi dove invece servirebbero di più, frenate da infrastrutture sanitarie insufficienti, costi elevati o un profondo stigma culturale. Proprio per questo lo studio ha scelto di guardare oltre la medicina tradizionale, valutando percorsi di cura più vicini al linguaggio emotivo dei bambini e delle loro comunità.

Uno degli esempi più concreti presi in considerazione all'interno della ricerca pubblicata a fine novembre sulla rivista Nature Mental Health riguarda il caso dei quasi 500 bambini di Poso, una città in Indonesia. Come riportato dal Telegraph, quel gruppo di ragazzini era cresciuto in una regione segnata da un lungo conflitto religioso e ha preso parte a un programma scolastico di cinque settimane basato sul teatro e centrato sull’elaborazione delle emozioni, sulla consapevolezza e su strategie di gestione dello stress. I risultati hanno mostrato una riduzione significativa di incubi, flashback disturbanti e della cosiddetta anestesia emotiva, vale a dire quella condizione nella quale le emozioni vengono represse in un apparente stato di distacco che però, sul lungo periodo, risulta logorante. Oltre al valore formativo della recitazione, la possibilità di interpretare personaggi e confrontarsi con il loro mondo interiore ha offerto a quei ragazzi un linguaggio simbolico nuovo, capace di colmare il vuoto lasciato dall’assenza di parole adeguate per raccontare ciò che avevano vissuto.

La forza delle comunità

Uno degli elementi più sorprendenti emersi da simili esperienze ha poi riguardato la figura dei "facilitatori". I risultati sono infatti stati più incisivi quando le attività venivano guidate da persone già inserite nel tessuto sociale, come insegnanti, operatori culturali o musicisti, e non necessariamente da professionisti della salute mentale. Un dato che amplia enormemente le possibilità di diffusione del metodo, riducendo costi e barriere logistiche.

Secondo la ricercatrice Briana Applewhite, co-autrice dell'indagine, le terapie artistiche non rappresentano infatti soltanto un supporto, ma "strumenti essenziali per contesti culturalmente diversi", perché permettono di elaborare il trauma in forme familiari e non stigmatizzanti. La psicologa Olivia Spiegler ha invece sottolineato come questo approccio possa integrare i trattamenti tradizionali, superando limiti linguistici e culturali e aprendo nuove strade anche per i giovani migranti e rifugiati in Occidente. L'idea di fondo è che l’arte, nelle sue molte forme, possa restituire ai bambini la possibilità di nominare il dolore e trasformarlo. Una suggestione che non appare più solo come intuizione pedagogica, ma ora assume i connotati di una vera e propria evidenza scientifica.

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