Come spiegare al proprio figlio che è malato: consigli utili per affrontare al meglio la situazione

Ricevere la diagnosi di una malattia importante che riguarda il proprio figlio è un momento di dolore e spaesamento profondo per qualsiasi famiglia. Comunicare questa verità al bambino, poi, è un passaggio ulteriore e delicatissimo, che richiede coraggio, sensibilità e consapevolezza. I genitori si trovano a dover gestire le proprie emozioni e, allo stesso tempo, a proteggere il figlio senza però ingannarlo o lasciarlo solo nelle sue paure. Secondo la professoressa Daniela Chieffo, docente di Psicologia Generale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttrice di Psicologia Clinica al Policlinico Gemelli, la chiarezza e la sincerità sono scelte necessarie, che rafforzano il legame e creano una sorta di alleanza "terapeutica" tra genitori e figlio.
La comunicazione sincera: esistono parole giuste?
"Non bisogna pensare che il bambino possa o debba restare all’oscuro: se ne accorge comunque, sente che il suo corpo cambia", spiega la professoressa Chieffo. Cercare di nascondere la verità, parlare sottovoce, piangere di nascosto, allontanarsi emotivamente o interrompere il dialogo genera nel bambino più angoscia e paura. Il silenzio diventa assordante e produce diffidenza.
Essere sinceri non significa però riversare sul bambino ogni dettaglio crudo. Le parole vanno scelte con cura, in base all’età e alla capacità di comprendere. "Con i più piccoli si usano metafore e immagini: la risonanza magnetica può ad esempio diventare un viaggio in navicella spaziale. Serve poi un linguaggio telegrafico, semplice, rappresentativo ma non infantile o riduttivo per chi è più grande". Con preadolescenti e adolescenti si deve invece parlare in modo più concreto, rispettoso della loro esigenza di essere considerati interlocutori consapevoli.

Molto utile poi non soffermarsi solo sull'aspetto "clinico" della malattia, ma sottolineare le tappe di terapie e cure che si andranno ad affrontare. In questo modo, i figli non verranno messi di fronte a un baratro oscuro e incerto, ma sapranno che li attende un percorso già definito in cui verranno seguiti e supportati. Simili consapevolezze offrono ai ragazzi un utile punto di riferimento per non lasciarsi scoraggiare dalla paura dell'ignoto.
"Dire al bambino cosa succederà, quali saranno i prossimi passaggi, lo aiuta a sentirsi meno solo, più sicuro. È un gesto di rispetto e di amore che rafforza l’alleanza genitore-figlio e diventa la colonna portante del processo di cura"
Scegliere il momento giusto
Quando si tratta di simili notizie, non basta saper parlare: conta anche il quando e il come viene affrontato il discorso. La comunicazione deve avvenire in un momento e in un luogo intimi, protetti, lontani da occhi estranei. "Spesso consigliamo di parlarne a casa, solo con i genitori. È un momento che richiede rispetto, perché permette al bambino di esprimere liberamente le proprie reazioni emotive", sottolinea Chieffo. È importante che i genitori si sentano pronti, ma prima serve un’elaborazione della loro stessa sofferenza: "Occorre che ci sia condivisione e consapevolezza tra i due genitori. Solo così possono affrontare insieme la comunicazione al figlio".

Rispondere alle domande del bambino
Dopo la comunicazione iniziale, possono emergere domande. Il consiglio dell’esperta è di rispondere sempre in modo onesto ma proporzionato. Anche di fronte a domande molto difficili – ad esempio sulla possibilità della morte – la risposta deve tener conto dell’età e del livello di consapevolezza del bambino.
"Quando si entra in fasi di malattia molto avanzate – spiega Chieffo – bisogna rispettare quel periodo di vita, avere molta prudenza. Non si tratta di dire tutto in modo brutale, ma di aiutare il bambino a comunicare, a esprimere ciò che sente. Se chiede cosa accadrà, si può spiegare che ci saranno cure più forti, senza però tradire la sua sensibilità". Il silenzio dei genitori in questi momenti non deve mai essere un muro, ma può diventare uno spazio di ascolto: serve rispettare i tempi del bambino, accogliere le sue parole e anche il suo eventuale silenzio.
Quando e se rivolgersi a un professionista
Per Chieffo il sostegno psicologico non deve essere visto come un tabù o un’ultima spiaggia. "Dal nostro punto di vista, la figura dello psicologo è necessaria sin dalla diagnosi", afferma la professoressa. Questo permette di accompagnare la famiglia nell'elaborazione della notizia e nella comunicazione con il figlio, riducendo i rischi di traumi futuri. Il ruolo dello psicologo, però, deve rispettare anche l’intimità familiare. Lo psicologo non deve essere sempre presente, deve saper fare un passo indietro per lasciare spazio alle risorse della famiglia. Ma intervenire sin dall’inizio aiuta a intercettare segnali di vulnerabilità psicologica e a creare un modello virtuoso di cura.
Il coinvolgimento di un professionista è particolarmente importante anche nelle fasi più delicate della malattia, soprattutto se emergono difficoltà nella comunicazione o nel gestire le reazioni emotive del bambino o dei fratelli, che spesso rischiano di sentirsi esclusi.