Bastone, carota e sberle: perché i metodi educativi di una volta sono sbagliati, spiegato da un’esperta

Quando si parla di educazione dei bambini spesso ci si domanda perché quei metodi considerati per lungo tempo come legittimi strumenti di disciplina – punizioni, sgridate, persino quelle sberle e sculacciate che "ogni tanto non fanno male" – oggigiorno vengano fortemente osteggiati dai pedagogisti e dagli esperti di sviluppo infantile. Si tratta semplicemente di una moda destinata ad esaurirsi? O forse è colpa di una società troppo "gentile" che non è più in grado di imporre regole ai più giovani?
In realtà, come ha recentemente spiegato la dottoressa Nancy L. Weaver, docente di scienze comportamentali alla Saint Louis University (USA) in un articolo pubblicato su The Conversation, la vera ragione è un'altra: negli ultimi vent'anni le neuroscienze hanno rivoluzionato la comprensione del cervello infantile e di conseguenza la psicologia e la pedagogia hanno ricalibrato i principi educativi – anche quelli che fino a poco tempo sembravano capisaldi indiscutibili – sulla base delle nuove scoperte. In altre parole, ora che la scienza conosce meglio il funzionamento il cervello dei bambini, ci si è accorti che i metodi di una volta non andavano nella direzione più corretta: "A quanto pare – scrive Weaver – molti approcci educativi e genitoriali tradizionali, basati su modelli comportamentali obsoleti, non sono efficaci né rappresentano una buona pratica, in particolare per i bambini più vulnerabili".
I limiti del modello "carota e bastone"
Gran parte delle strategie educative del Novecento, spiega Weaver, si basavano sugli esperimenti di B.F. Skinner, psicologo comportamentale che studiava il comportamento dei ratti e che verteva in gran parte sul sistema delle ricompense, con premi per i comportamenti "giusti", e piccole punizioni per quelli "sbagliati". Da lì derivano infatti i sistemi meritocratici che ancora oggi molti genitori conoscono bene: le stelline sul quaderno, i piccoli premi per gratificare un bel voto, ma anche i castighi e la perdita di privilegi in caso di comportamenti ritenuti scorretti.

Per lungo tempo questo è stato considerato il modo corretto – anzi, il modo "naturale" di educare. Anzi, la stessa Weaver racconta di aver adottato questi approcci con i suoi figli, sgridandoli e spedendoli in camera quando si comportavano male. Con l'ingresso dei ragazzi nell’adolescenza, la ricercatrice si è però resa conto di quanto quel modello stesse logorando il rapporto familiare e non producesse i risultati sperati.
Quando il cervello "va offline", le punizioni non servono
Grazie ai progressi compiuti negli ultimi anni, le neuroscienze hanno chiarito non solo che le punizioni sono poco efficaci nell'educare i più giovani, ma che anzi spesso si rivelano controproducenti. Ogni essere umano, bambini compresi, ha infatti un sistema nervoso che si attiva davanti a una minaccia: il cuore accelera, le mani sudano, l’attenzione si restringe. In quel momento la parte del cervello deputata al ragionamento e al comportamento, la corteccia prefrontale, si disattiva temporaneamente per lasciare spazio alle reazioni istintive di "lotta o fuga".
Nei bambini questo meccanismo è ancora più marcato, perché la loro corteccia prefrontale non è completamente sviluppata. Significa che un bimbo che afferra con rabbia un giocattolo di un compagno di asilo non lo fa perché "non sa le regole", ma perché il suo cervello non riesce a gestire l’emozione di sentirsi escluso. In quelle circostanze, pertanto, una punizione o un rimprovero non fanno che aumentare lo stress, impedendo al bambino di imparare davvero a gestire la situazione.

Il ruolo della co-regolazione
Stando alle nuove nozioni apprese nell'ultimo ventenni di studi, gli esperti sono così giunti alla conclusione che ciò che può davvero aiutare i bambini a disciplinarsi è la "co-regolazione", ossia la capacità da parte di un adulto calmo di trasmettere al bambino la propria stabilità emotiva, riportandolo in uno stato di sicurezza. Solo allora il piccolo è pronto a riflettere e a comprendere le conseguenze delle proprie azioni. Gridare e minacciare castighi nella convinzione di disciplinare il piccolo discolo, invece, risulta del tutto inefficace. Anzi, per dirla come la Weaver, tentare di insegnare qualcosa durante un capriccio equivale a "spiegare a un uomo in arresto cardiaco che dovrebbe mangiare meno zuccheri": semplicemente non è il momento giusto per affrontare l'argomento.
Un approccio basato sulla curiosità
Contrariamente a ciò che pensano molti estimatori dei cari "vecchi metodi", il nuovo orizzonte educativo basato sulle evidenze delle neuroscienze non rinuncia affatto ai confini né alle regole, ma li inserisce in una cornice diversa. Invece di limitarsi a punire un comportamento indesiderato, si cerca di capire da dove nasca. Perché il bambino non ha fatto i compiti? Perché ha lanciato sabbia al cuginetto? La curiosità, più che la punizione, diventa lo strumento che apre al dialogo. Un esempio concreto riportato dalla profesoressa Weaver è quello del capriccio in cassa al supermercato: se il figlio chiede una caramella, il genitore può tenere il punto senza cedere, ma al tempo stesso restando accanto al piccolo, contenere la frustrazione e riconoscere il comprensibile dispiacere per la richiesta negata. Così facendo che il bambino impara a tollerare la delusione, sviluppando capacità emotive fondamentali.

Certo, specifica Weaver, questa prospettiva non elimina le difficoltà quotidiane, tuttavia le affronta con strumenti più efficaci: "Educare con la consapevolezza del cervello che cresce è molto più efficace nel plasmare i comportamenti e apre la strada a una crescita emotiva per tutti, rafforzando la relazione genitore-figlio", scrive la ricercatrice. In altre parole, ciò che un tempo sembrava debolezza o permissivismo oggi si rivela, alla luce delle neuroscienze, una scelta più solida e lungimirante. E se crescere dei figli non è mai stato, né sarà mai semplice, ma comprendere come funziona davvero la loro mente può rendere il compito un po' meno arduo e molto più ricco di risultati duraturi.