Neon Genesis Evangelion compie trent’anni, perché è stata una rivoluzione degli anime

Parlare dei trent’anni di Neon Genesis Evangelion significa parlare di anime, di Giappone e, soprattutto, di Hideaki Anno, il suo creatore. Parlare dei trent’anni di Neon Genesis Evangelion significa fare i conti con i tanti – tantissimi, anzi – cambiamenti che hanno travolto l’industria dell’animazione, il pubblico e la carriera di Anno. Quando è andata in onda per la prima volta, il 4 ottobre 1995, Neon Genesis Evangelion non portava con sé né aspettative né promesse. Nessuno, infatti, la considerava un nuovo fenomeno, una serie capace di attraversare il tempo e lo spazio – grazie allo streaming e alle edizioni home video, Evangelion è arrivata davvero ovunque – e di coinvolgere milioni di appassionati.
Con il suo successo, Evangelion è sfuggita al controllo di Anno, che ha dovuto, ancora una volta, imparare a fare i conti con la realtà. I fan si erano appropriati della sua creatura; in alcuni casi, avevano finito per snaturare la sua visione e per oggettivizzare e sessualizzare i suoi personaggi (in particolare quelli femminili, come Rei Ayanami e Asuka Langley Soryu). Anno ha sempre avuto in mente una cosa: creare una serie animata rivolta a un pubblico adulto, matura, con una consapevolezza di fondo importante. Evangelion non parla, banalmente, di robottoni e di alieni, della fine dell’umanità e di un mondo post- apocalittico. Certo: ci sono anche queste cose. Ma i robottoni non sono veri e propri robottoni: sono antropomorfi, umani, fatti di carne; urlano, soffrono, talvolta sembrano avere una loro coscienza. E la fine dell’umanità e l’ambientazione post-apocalittica non sono altro che una scusa. Un modo, cioè, per ritagliare l’ambientazione, per costringere le dinamiche e le interazioni tra i personaggi in determinati spazi, con determinati obiettivi e urgenze.
Il protagonista di Evangelion resta un adolescente, con un rapporto difficile con suo padre, in piena pubertà, incapace tanto di esprimere chiaramente i suoi sentimenti quanto di nasconderli. Hideaki Anno è sempre stato estremamente onesto. Quando viene intervistato, non si nasconde dietro giri di parole o frasi a metà. Una volta, arrivò ad ammettere di aver preso in considerazione la possibilità di suicidarsi. Se non l’aveva fatto, spiegò, era stato per la paura che aveva del dolore. In Evangelion Anno ha riversato ogni cosa. La sua infanzia, la relazione difficile con la sua famiglia; la sua insicurezza, ciò che più gli interessava e piaceva.

Anno si è fatto notare rapidamente nel mondo dell’animazione, prima ancora di lavorare a Evangelion o ad altre serie – altrettanto amate – come Nadia e il mistero della Pietra Azzurra. Hayao Miyazaki, il regista Premio Oscar de La città incantata e de Il ragazzo e l’airone, l’ha voluto sia per Nausicaa della Valle del Vento, dove Anno ha curato una lunga sequenza, sia per Si alza il vento, dove Anno ha prestato la sua voce al protagonista. Più di Miyazaki, però, per Anno è stato fondamentale il rapporto con Toshio Suzuki, storico produttore dello Studio Ghibli, che gli ha sempre offerto supporto e aiuto e che, in qualche modo, ha riempito le distanze tra Anno e Miyazaki. Non è un’esagerazione dire che il legame che unisce Anno e Miyazaki ricorda molto quello tra padre e figlio.
Come Miyazaki, anche Anno ama profondamente l’animazione, intesa sia come possibilità narrativa sia come linguaggio; e come Miyazaki anche Anno prova a liberarsi dei luoghi comuni, di una visione limitata e limitante di autore. Evangelion è nata come una serie monca: Anno e lo Studio Gainax non hanno mai avuto il budget di cui avevano bisogno per completarla come si deve. Gli ultimi due episodi, il 25 e il 26, ne sono la dimostrazione: nonostante siano visivamente interessanti, non hanno avuto le risorse necessarie per essere portati a termine seguendo il progetto originale. Alla fine della serie, Anno ha dovuto affrontare un’altra crisi: la risposta del pubblico. In molti speravano in un lieto fine per Shinji Ikari, il protagonista.
Circa dieci anni dopo, Anno ha cominciato a lavorare alla serie Rebuild, con l’intenzione di modificare Evangelion e di poter raccontare finalmente la storia che aveva immaginato. Per farlo, ha fondato lo studio Khara (dal greco: gioia, felicità). Nella costruzione di Evangelion, Anno ha inserito tutto ciò che ha sempre amato: dai film ai libri. Ha inoltre utilizzato una mitologia estremamente vicina a quella cristiana ed ebraica, senza però provare a farne un punto di riferimento assoluto. Il dogmatismo non ha mai fatto parte dell’anima originale di Evangelion. Anche questo, in un certo senso, è stato uno degli effetti collaterali del suo successo.
Nel 2021 è uscito l’ultimo film della tetralogia Rebuild e Anno ha detto addio, almeno per ora, alla sua creatura. Eppure i fan non hanno mai smesso di parlarne, di commentare questa serie, di rivederla insieme, di consigliarla e di aggiungere, ogni volta, spunti e considerazioni. E questo per i temi che affronta, per la spudoratezza con cui – per un anime degli anni Novanta – vengono messi in scena il desiderio e il senso di perdita e di solitudine. Gli archetipi narrativi, in Evangelion, vengono decostruiti e rielaborati: il ragazzino solitario diventa l’eroe, l’uomo equilibrato, capace di prendere il controllo della sua vita. E per farlo, per riuscirci, deve “solo” – virgolette obbligatorie – attraversare e sopravvivere alla fine del mondo.

In ogni dettaglio di Evangelion, si cela un particolare della vita di Anno: i mecha che perdono arti rispondono a una sua idea di normalità precisa, con cui ha imparato a convivere fin da giovane, guardando il padre privo di una gamba. Evangelion è contraddistinta quasi da un andamento circolare, che riporta la fine all’inizio e viceversa. Solo con l’ultimo film della serie Rebuild, questa catena si spezza. Evangelion ha segnato un momento importantissimo in quella che potremmo definire “rivoluzione degli anime”. Ha rilanciato un genere, quello dei mecha, quando non stava andando particolarmente bene. E ha messo al centro temi come la crescita, il rapporto con gli altri e con la propria famiglia, il senso profondo di appartenenza o, al contrario, di abbandono.
Nonostante la sua specificità, vista l’ambientazione in cui si svolge e la grammatica della sua narrazione, Evangelion è diventata una serie universale, rivolta a tutti. Anno ha provato a dare tutto sé stesso, ad aprirsi completamente nel racconto di una storia a cui, tra alti e bassi, ha sempre tenuto molto; e gli spettatori, questa cosa, l’hanno capita. Anzi, l’hanno apprezzata. Evangelion è un viaggio, un romanzo di formazione, un’opera talmente variegata e intensa che è impossibile riuscire a darne un’unica lettura. Il rapporto con il femminile, con i genitori e, soprattutto, con sé stessi. Shinji è un simbolo. Evangelion è un mosaico ampissimo, in cui non c’è solo il simbolo-Shinji ma tanti, tantissimi altri.