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Opinioni

Quello che Giorgia Meloni non dice sul possibile uso delle basi italiane da parte degli USA

Giorgia Meloni dice che gli Usa non hanno usato le basi italiane per attaccare l’Iran. Ma non chiarisce le due questioni centrali: nel caso servissero, il governo darebbe il via libera? E in che modo sarà coinvolto il nostro Parlamento?
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Una delle questioni laterali, ma per nulla secondarie, dell’ennesima escalation in Medioriente è legata al possibile utilizzo delle basi militari statunitensi in Italia. La decisione di Donald Trump di bombardare tre siti strategici per il programma nucleare iraniano, infatti, potrebbe comportare il pieno coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto scatenato da Israele contro l’Iran, in proporzioni che non siamo ancora in grado di definire. In un contesto simile, l’Italia ha un ruolo centrale, proprio perché ospita basi di capitale importanza per eventuali attività militari statunitense nell’area del conflitto.

Nel corso delle comunicazioni in vista del Consiglio Europeo, Giorgia Meloni è stata piuttosto vaga sulla possibilità che gli USA utilizzino le basi in Italia. La presidente del Consiglio ha chiarito che nell'attacco ai siti nucleari iraniani non sono state coinvolte in alcun modo le basi italiane, neanche per attività di supporto o rifornimento, immaginiamo. Ma non ha affrontato lo scenario in cui gli statunitensi possano aver bisogno di usarle. Non ha chiarito con nettezza, cioè, quale sarà l'orientamento del governo in relazione a un'ulteriore escalation del conflitto in corso. Una scelta obbligata, probabilmente, per non indispettire Washington con un no "a priori". Ma anche un elemento di debolezza nella narrazione meloniana, perché evidenzia l'impasse in cui si viene a trovare il governo ogni volta che "l'amico Donald" decide di accelerare, senza consultare nessuno.

"Come ha detto il ministro Crosetto, non è stato richiesto l'uso delle basi statunitensi in Italia e chiaramente potranno essere utilizzate solo con un'autorizzazione del governo italiano. Personalmente credo che sia abbastanza velleitario speculare su scenari che al momento non si sono verificati, soprattutto in un contesto in rapida evoluzione: penso che queste decisioni non si prendono su basi ideologiche, ma valutando il contesto, i pro e i contro e tutte le ragioni. In ogni caso non penso che accadrà, ma garantisco che una decisione del genere dovrebbe fare un passaggio parlamentare, a differenza di quanto accaduto in altre occasioni quando al governo non c'eravamo noi", si è limitata ad aggiungere Meloni durante la replica a discussione terminata. Insomma, nessun posizionamento per ora: è tutto rimandato a un altro momento.

Già prima dell’intervento statunitense, si era discusso della possibilità che il nostro Paese potesse trovarsi a entrare indirettamente nel conflitto, al punto che il ministro della Difesa Guido Crosetto aveva dovuto chiarire che un eventuale utilizzo delle basi poteva essere concesso solo dopo che gli USA avessero spiegato “per cosa le vogliono utilizzare”. Crosetto faceva riferimento alla necessità di un’autorizzazione del governo italiano, così come disposto da una serie di accordi bilaterali che appunto disciplinano la presenza di asset militari statunitensi sul nostro territorio. Per chi volesse approfondire la questione, lascio il link di questa scheda del Servizio Studi della Camera dei deputati.

Per ora limitiamoci a dire che, per effetto dei vari accordi, “le basi militari utilizzate dagli Stati Uniti nel nostro Paese sono finora state soggette a una duplice forma di controllo operata dalle autorità militari statunitensi e italiane” e che il loro utilizzo è vincolato al via libera del Paese ospitante. Già, ma tecnicamente come avverrebbe? E cambierebbe lo “status” dell’Italia, facendola diventare nazione belligerante? Dovrebbe decidere il Parlamento? È piuttosto complicato rispondere a tutte queste domande, come spiegava anche Il Sole 24 Ore qualche giorno fa:

Che gli americani non possano usare le basi militari sul territorio italiano senza un passaggio da Palazzo Chigi sembra assodato, ma anche sulla necessità – formale o anche solo politica – di un coinvolgimento del Parlamento non ci sono molti dubbi: «Se gli Usa decideranno di utilizzare le loro strutture nell’ambito di una campagna contro l’Iran, il governo non potrà fare a meno di passare da Camera e Senato». E’ il pensiero di due dei più autorevoli costituzionalisti italiani, Michele Ainis e Cesare Mirabelli, a cui è stato chiesto: è legittimo per il nostro Paese alla luce della Carta Costituzionale – che all’articolo 11 “ripudia la guerra” – che gli Stati Uniti facciano uso delle basi in Italia per azioni contro Teheran?

[…] E dunque si possono utilizzare le basi? «Se dovessi dire – risponde il giurista – non si dovrebbe poter fare». Il governo comunque «dovrebbe riferire in Parlamento, perché è il Parlamento il dominus dell’entrata in guerra. Lo dice l’articolo 78, anche se lo stato di guerra non è mai stato deliberato. Non si può scavalcare il Parlamento. Qualunque decisione che ha a che fare con l’appoggio o l’intervento diretto militare o l’appoggio a un altro Stato non può non avere una ’benedizione’ parlamentare». Il Parlamento – risponde Mirabelli – può dare indirizzi che possono essere politicamente vincolanti sul governo. Il Parlamento necessariamente deve dire qualcosa per lo stato di guerra, che non è mai stato pronunciato finora. Nell’esperienza che viviamo le guerre però non vengono dichiarate e la guerra è un fatto e non un atto giuridico”.

C’è un precedente, quello dell’Iraq nel 2003, e allora il Parlamento approvò le risoluzioni proposte dalla maggioranza guidata da Silvio Berlusconi. Ma le condizioni odierne sembrano essere diverse e le posizioni dei partiti già ben definite. Elly Schlein, ad esempio, ha già schierato il Pd: “Siamo tutti d’accordo che il regime teocratico e liberticida di Teheran non possa sviluppare un’arma nucleare, ma il modo per impedirlo non è bombardare, è negoziare. Il Governo italiano dica con chiarezza che non parteciperà ad azioni militari né consentirà che il nostro territorio possa essere utilizzato per fornire sostegno a una guerra che la comunità internazionale deve provare a fermare prima che sia troppo tardi, e si impegni per la de-escalation e per far tornare tutti gli attori coinvolti al tavolo negoziale, anche per difendere il Trattato di non proliferazione nucleare. L’Italia ripudia la guerra e vuole la pace”. Giuseppe Conte è sulla stessa lunghezza d’onda: "L'attacco degli Usa segna un'escalation dagli esiti incontrollabili. Chiedo a Meloni per una volta di non attendere istruzioni dall'alto e di mettere subito al primo posto la sicurezza del nostro paese, di non dare la disponibilità delle nostre basi militari per questa escalation e di garantire che nessun colpo sarà sparato da un nostro soldato".

Come ha mostrato il dibattito alla Camera, anche Bonelli e Fratoianni sono allineati. In tal senso, è interessante leggere qualche passaggio dell’intervista che Giuseppe Provenzano, responsabile esteri del Partito democratico, ha rilasciato a Niccolò Carratelli su La Stampa, per spiegare le ragioni del posizionamento dell’opposizione.

“Si è realizzato lo scenario peggiore e gli sviluppi di questo conflitto sono imprevedibili. Aumenterà il disordine globale e si rischia di spazzare via il diritto internazionale, già profondamente in crisi. Trump aveva promesso di fermare le guerre in corso in poche settimane, invece, ha infiammato il mondo ancora di più […] Meloni deve svincolarsi da Trump perché l'Italia rimanga fedele ai propri principi e ai valori del multilateralismo, e per non mettere in pericolo la nostra sicurezza nazionale e i nostri interessi strategici. Ha fatto bene la segretaria ieri a chiamarla. La situazione è allarmante. Chiediamo che correggano radicalmente la strategia: la subalternità all'amministrazione Trump non è compatibile con i nostri interessi. L'idea di fare da ponte tra le due sponde dell'Atlantico è fallita. Il ponte dobbiamo provare a costruirlo con l'Europa nel Mediterraneo”

E invece il governo continua a pensare di poter “mediare” tra Usa e Iran. A dirlo stavolta non è solo Meloni, ma anche il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani, in un colloquio con Anna Maria Greco de Il Giornale, che vale la pena di leggere in alcuni passaggi essenziali:

Iraniani e americani devono tornare a sedersi allo stesso tavolo, senza intermediari. E vorremmo che le trattative sul nucleare riprendessero a Roma, come è già avvenuto due volte […] Non faccio l’aruspice, tutto può succedere, ma gli USA dicono che non ci saranno altri raid e io devo fidarmi. Ho parlato con il segretario di Stato americano Rubio per dire che bisogna riprendere il colloquio diretto e ho cercato il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi, che però era in volo per Mosca, per dirgli lo stesso. Lavoriamo per impedire un'escalation, non a caso abbiamo lasciato aperta la nostra ambasciata a Teheran, stiamo facendo ogni sforzo per convincere l'Iran a non decidere azioni inconsulte, come attaccare ambasciate americane. La nostra speranza è nella diplomazia.

Parole che sanno di velleitarismo, probabilmente come mai prima d'ora. Perché al di là dei toni del dibattito alla Camera e della narrazione veicolata attraverso i media amici, la realtà è brutale: in questo momento, l'Italia non solo non tocca palla, ma con la scelta del governo di schiacciarsi su una ridicola linea trumpiana a oltranza, è guardata con sospetto persino dagli alleati europei. Protagonisti sì, ma nel modo sbagliato.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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