
Qualche giorno fa mi rammaricavo del fatto che il dibattito pubblico sui referendum dell’8 e 9 giugno si fosse orientato più sulla diatriba sulla legittimità o meno dell’astensione (e degli appelli a disertare le urne) che sul merito dei quesiti. Al netto delle perplessità che chi scrive nutre su alcune scelte dei promotori (e, in generale, sull’intellegibilità della formulazione dei quesiti), parliamo di temi che invece sono di grande interesse, perché riguardano aspetti fondamentali della vita di milioni di cittadini e lo stesso modello di società che intendiamo costruire. Non informare adeguatamente i cittadini su proposte che riguardano lavoro e cittadinanza è una colpa grave di media e politica, dunque, proprio perché si tratta di tematiche importanti, che impattano fortemente sulla società del futuro.
Ed è piuttosto desolante constatare come, quando mancano poco più di due settimane alla consultazione, i giornali italiani diano poco spazio al dibattito di merito e si concentrino su polemiche di secondo piano o sulle divisioni interne ai partiti. Oggi vi risparmierò i titoli e le citazioni non solo dei giornali della destra, ma anche i tanti corsivi e retroscena sulle divisioni interne al Partito democratico, sulle tensioni con i renziani e le strane scelte di centristi e liberali. In questa puntata dell'Evening Review, la newsletter quotidiana pensata per chi ha scelto di sostenere Fanpage.it (ma che per il momento vi regaliamo), proviamo a restare sul punto.
Mario Ajello sul Messaggero dà una lettura piuttosto interessante di come la responsabilità di un dibattito deludente sia da considerarsi condivisa da media e politica:
La maniera con cui da entrambe le parti si pratica lo scontro rischia di convincere poco perché assume agli occhi dell'opinione pubblica cioè dei cittadini stanchi di dispute autoreferenziali, pretestuose o di Palazzo – le sembianze del solito tran tran, del consueto mondo parallelo degli addetti ai lavori e ai livori in cui ci si azzuffa per vicendevoli interessi di bottega senza te-nere conto dell'interesse nazionale e perde di vista il merito delle questioni. Che in questo caso sarebbe molto chiaro e importante ma si dissolve nel rumore della zuffa ed è questo: che tipo di mondo del lavoro serve all'Italia, con quali regole, con quali criteri di accesso e di uscita, con che tipo di fisionomia (più flessibile o più ingessata?) e con quali possibilità di crescita e di modernizzazione.
Ecco: temi di profonda rilevanza sociale e di diretto interesse per le famiglie che avviano i propri figli a una carriera e per chi svolge un lavoro, o vorrebbe svolgerlo, e sono anche temi che attengono alla produttività dell'Italia, quindi alla sua competitività che è connessa al suo peso internazionale. Nei referendum c'è tutto questo. E banalizzare queste questioni – a cominciare da quella dei tempi per ottenere la cittadinanza italiana, materia di uno dei quesiti e forse il più importante- per ridurle soltanto a occasioni di rissa, invece di alzare il livello del confronto, può avere una serie di effetti gravi. Quello di aumentare il disinteresse della gente verso la politica.
Scendere nel dettaglio dei temi richiede uno sforzo ulteriore da parte degli addetti ai lavori, me ne rendo conto. Ma è quantomai urgente, proprio per garantire quella consapevolezza che è alla base della scelta dei cittadini. Mi voglio ripetere, il problema non è l’astensione. Quando consapevole e ragionata è scelta rispettabile e in ogni caso sempre legittima. Ma quando deriva dalla mancanza di informazioni, dalla non conoscenza dei temi e dall’assenza di un dibattito pubblico che spieghi contesto e senso di una consultazione elettorale, beh, allora diventa davvero un problema per il funzionamento della democrazia. Per quanto concerne i quesiti sul lavoro, vi consiglio di recuperare questo nostro approfondimento, mentre oggi mi vorrei soffermare su un aspetto particolare del tema della cittadinanza.
Uno degli elementi che ritornano ogni volta che si affronta il tema della riforma della cittadinanza è quello legato al “numero” di nuovi italiani che si andrebbero a determinare e alle presunte problematiche di carattere economico-assistenziale che si andrebbero a determinare. Il discorso è piuttosto complesso e ci promettiamo di affrontarlo a breve su Fanpage.it (assieme a quello, altrettanto centrale della “cittadinanza come merito”), per ora può essere opportuno limitarsi al dibattito sui numeri.
Non è un calcolo semplice, per la complessità e quantità di fattori in gioco, un aiuto ci viene dal sito de LaVoce.info, che propone un lavoro di Raffaele Lungarella su “Quanti saranno i nuovi cittadini italiani se passa il referendum”. Prima di tutto si ricorda che “in dieci anni, dal 2014 al 2023, gli stranieri che sono diventati cittadini italiani per una delle motivazioni previste dalla legislazione vigente sono stati quasi 1,7 milioni”. La cosa si fa interessante quando si vanno ad analizzare i dati per le diverse modalità con cui si può acquisire la cittadinanza italiana:
Diventa cittadino chi sposa un’italiana o un italiano e risiede nel paese per almeno due anni dopo il matrimonio. […] Dai dati Istat si ricava che la quota delle cittadinanze per matrimonio è minoritaria: solo nel 2018 si è attestata sul 20 per cento. In tutti gli anni considerati, in più di otto casi su dieci sono le straniere a diventare cittadine italiane sposando un italiano. modalità “altro” arriva sempre almeno intorno al 40 per cento del numero totale di cittadinanze concesse. Nel 2023 quasi uno straniero su due è diventato italiano per una delle ragioni riunite in questo gruppo. I nuovi cittadini italiani con questa motivazione sono tutti molto giovani: nei primi tre anni della serie storica, tutte le cittadinanze “altro” sono state attribuite a persone di età fino a 20 anni; successivamente il loro peso sul totale è sceso sotto l’80 per cento solo nel 2023. La forte concentrazione di giovani è dovuta, quasi esclusivamente, alla cittadinanza ottenuta dagli immigrati di seconda generazione. La normativa dà infatti ai figli nati in Italia da genitori stranieri la possibilità di richiedere la cittadinanza entro un anno dal compimento della maggiore età.
E per quanto concerne il requisito della residenza? Le acquisizioni per residenza riguardano circa 700mila persone in dieci anni, ma senza che sia possibile disaggregare i dati tra comunitari ed extracomunitari. Come ricorda l’autore, dunque, “gli oppositori del referendum temono che una vittoria del “sì” possa far crescere il numero di extracomunitari che diventano cittadini italiani per la riduzione della durata della residenza richiesta”. Senza girarci troppo intorno, però, va detto che si tratta di una preoccupazione infondata. Dalle simulazioni effettuate, infatti, emerge come “nel caso di una vittoria referendaria del “sì”, la riduzione da dieci a cinque degli anni di residenza pregressi, produrrebbe effetti solo nel breve termine, che verrebbero tuttavia riassorbiti nel tempo”. Nel pezzo, che vi consigliano caldamente di leggere, sono riportate delle simulazioni piuttosto chiare, che aiutano a porre la questione nei giusti termini.
Non ci sarebbe nessuna "esplosione" del numero di nuovi italiani, nessun boom di extracomunitari che avrebbero accesso facile alla cittadinanza, anche perché tutti gli altri requisiti per ottenerla resterebbero invariati.
Si tratterebbe di un segno di civiltà e di un piccolo passo in avanti, importante anche sul piano simbolico. Lo ricorda Riccardo Noury in un'intervista a L'Unità:
Ridurre il periodo di attesa della cittadinanza significherebbe riconoscere più rapidamente il ruolo delle persone che già vivono qui e contribuiscono alla nostra società. Produrrebbe anche un miglior accesso ai diritti: con la cittadinanza si acquisiscono pieni diritti civili e politici, tra cui il diritto di voto.
In altre parole, si otterrebbe una sostanziale riduzione delle forme di discriminazione per le persone oggi prive di cittadinanza italiana. Soprattutto, ne deriverebbe un profondo cambiamento sotto il profilo identitario: chi ha un background migratorio non verrebbe più percepito come "di passaggio" o semplicemente "soggiornante" in Italia, ma come una persona che progetta di costruire la sua vita qui.
Ecco, niente allarmismi, niente mistificazioni. Un gesto di rispetto e un segno di apertura. Niente di rivoluzionario, ma già molto per questi tempi bui.
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