
Era tutto sommato semplice pronosticare il mancato raggiungimento del quorum ai referendum su lavoro e cittadinanza. Lo abbiamo scritto e detto in tutte le salse: nel contesto attuale, ci sono ragioni tecniche (un quorum falsato da una platea elettorale gonfiata) e tendenze socio-culturali consolidate (la disaffezione crescente, il peso della copertura mediatica eccetera) che rendono estremamente complesso anche solo pensare di poter portare alle urne più del 50% degli aventi diritto. Il quorum era una missione impossibile, a maggior ragione per una campagna elettorale cominciata piuttosto tardi e che non ha potuto beneficiare di una copertura mediatica corretta.
Il dato finale dell’affluenza, però, era difficilmente prevedibile e comporta un surplus di riflessione, non solo tra i promotori dell’iniziativa referendaria, ma tra tutti coloro che intendono rappresentare l’opposizione nel paese alla destra al governo. Perché se è d’obbligo premettere che le dinamiche del voto referendario sono sempre specifiche e non sovrapponibili a quelle di altre consultazioni, sarebbe miope non vedere che questo risultato rafforza Giorgia Meloni e tutta la galassia della destra italiana, compresi quei giornali e media che hanno per mesi nascosto l’appuntamento elettorale e poi picconato le ragioni del referendum. Spacciare il 30% come un buon risultato non mi pare il massimo dell'onestà intellettuale. Dire che ognuno dei 12 milioni di italiani che si è recato alle urne lo ha fatto per manifestare dissenso verso Meloni, poi, non solo tradisce lo spirito originario del referendum, ma assomiglia all'operazione che fanno i partiti sconfitti alle urne, quando si appropriano delle schede bianche o delle astensioni.
Contrariamente a quanto hanno provato a chiedere la Cgil e pochi altri, infatti, questo è stato uno dei referendum più politicizzati della storia recente. L’idea che si potesse “dare una spallata al governo” per il tramite della partecipazione alle urne è stata rilanciata per settimane dai partiti che hanno sostenuto i 5 Sì, e che ora ne devono trarre le conseguenze. Il 30% scarso non è un buon risultato, non si avvicina nemmeno a una spallata, anzi.
È facile dire adesso che la politicizzazione sia stata un errore, col senno di poi. Ma la caratterizzazione come “voto contro”, a ben vedere, era una delle poche armi a disposizione per far passare il messaggio referendario. Troppo complessi i quesiti sul lavoro, poco ambizioso (per quanto importante) quello sulla cittadinanza. Ed era chiaro che l'accorpamento tra temi distinti avrebbe potuto ridurre ulteriormente il numero di elettori alle urne, considerando la ritrosia degli elettori di centrodestra ad affrontare il tema della cittadinanza e le perplessità di quelli centristi sulle scelte dei sindacati. Insomma, una mission impossible che è rimasta tale, con proporzioni piuttosto inattese.
Che, come dicevamo, meritano qualche considerazione ulteriore. In primo luogo sull’aria che si respira nel Paese e su cosa gli italiani pensano della guida di Giorgia Meloni.
La presidente del Consiglio, dopo le altalenanti avventure sullo scenario internazionale, dimostra di avere ancora un rapporto privilegiato con gli elettori italiani. Caso praticamente unico nella storia italiana per chi governa da oltre due anni e mezzo, Meloni naviga serenamente intorno al 30% dei consensi, incurante delle angosce della propria maggioranza, delle contestazioni nelle piazze e di quella che sembra una rinnovata unità dell’opposizione, almeno su temi di grande rilevanza sociale. E lo fa malgrado i risultati certamente non eclatanti dell’azione di governo (bene sull’occupazione, male sulla produzione industriale, malissimo sulle bollette e sulla sanità). Portando la maggioranza che la sostiene a rivendicare il “successo” del referendum, malgrado le tante sgrammaticature istituzionali di queste settimane, con inviti all’astensione, al boicottaggio, rotture del silenzio elettorale e via discorrendo.
Sulla questione si interroga Massimo Franco sul Corriere della Sera: “Non c'è soltanto il confronto con un'Italia profondamente cambiata, seppure perplessa dall'operato di un governo e di una maggioranza per molti versi sotto le aspettative. Si indovina soprattutto l’inadeguatezza della proposta alternativa. Le critiche abrasive nei confronti dello schieramento meloniano appaiono radicali e liquidatorie. Ma questo costringe a chiedersi come mai, di fronte al presunto disastro della destra governativa, l'elettorato non scelga in massa l'altro schieramento e non risponda fino in fondo ai suoi appelli. La questione ineludibile è questa. E non sarà facile rimuoverla additando le responsabilità altrui".
È tempo dunque di tenere accesi i riflettori su quella che è la coalizione di centrosinistra, o il campo largo, o l’alternativa alla destra, a seconda del punto di osservazione. Per il direttore de Il Foglio Claudio Cerasa uno dei problemi è che “quello che il centrosinistra ha messo in campo negli ultimi mesi è uno schema di gioco non episodico che ci permette di inquadrare bene una dimensione pericolosa all'interno della quale ha scelto di collocarsi il co-sì detto campo largo. Contro Meloni, contro Salvini, contro Tajani, contro i centristi, ma anche contro la propria storia. La battaglia contro il Jobs Act, una battaglia simbolica, certo, ma profondamente autolesionista, una battaglia scellerata contro una riforma di sinistra che ha contribuito a riformare l'Italia proiettandola nella modernità, è la punta di un iceberg più grande che mostra una realtà che va oltre i numeri di un referendum o i risultati di un'elezione”. In questa lettura, piuttosto condivisa nell’area centrista (anche a leggere le parole di Renzi e tutto sommato il commento di Calenda al voto), il modello che Conte e Schlein stanno costruendo “rinnega la storia” recente del centrosinistra, sia sul versante delle riforme del mercato del lavoro, che su quello della gestione dell’immigrazione (qui il riferimento è all’asse Gentiloni-Minniti, quello degli accordi con i libici e del primo contrasto all’attività delle ONG).
Onestamente, legare il flop del referendum alla piattaforma politica che ancora non c’è di Schlein e Conte è abbastanza azzardato. Anche perché, almeno a guardare i numeri, il Partito democratico sembrerebbe essere riuscito a mobilitare comunque una buona parte del proprio elettorato.
Ma che siano stati gli stessi leader del centrosinistra a caricare di valenza politica il referendum (per diverse ragioni, lo abbiamo detto) e che ora debbano gestirne le conseguenze, è un fatto. A destra, per la verità, c’è chi ha interpretato questa scelta in altro modo, come un cedimento alle pressioni di Landini, vero leader ombra della sinistra. Lo scrive Pietro Senaldi su Libero: “Landini ha messo in conto da subito di non raggiungere il quorum, per questo ha teso la trappola ai partiti del presunto futuro campo largo, chiamandoli a sostegno contando sul fatto che non si sarebbero potuti sottrarre. […] Landini dichiarerà di essere un fenomeno, sosterrà che il 30, 35, vogliamo esagerare 40% degli italiani sta con lui e che nessun altro leader della sinistra potrebbe mai vantare un tale consenso”.
È chiaro, le penne della destra fanno il loro gioco e picchiano durissimo sui leader del centrosinistra. La domanda che però andrebbe fatta è: esiste o è mai esistito uno scenario in cui i partiti di sinistra si sarebbero potuti tirare indietro dal sostenere questo referendum? Perché se un orizzonte esiste, deve essere quello della chiarezza delle scelte e dei principi. L'idea di lavoro che i partiti della sinistra devono avere passa o no per modifiche di senso come quelle proposte dai quesiti? E su cittadinanza, accoglienza e integrazione, la sinistra e i progressisti in generale hanno intenzione di costruire un modello diverso?
Ecco, probabilmente occorre lavorare perché gli elettori non abbiano mai dubbi sulle risposte che darebbe un politico di quell'area. E solo successivamente migliorare comunicazione e strategia. Piani su cui, ora che il flop del referendum è un dato di fatto, possiamo serenamente dire che bisogna lavorare e tanto. Perché, come diciamo sempre in questa rubrica, il contesto conta, sempre. E ignorare che esiste un problema di disaffezione al voto, che c'è un disperato bisogno di chiarezza comunicativa e semplificazione (non banalizzazione) delle istanze, di inseguire la viralità dei messaggi e della mobilitazione, è un errore strutturale. Che aiuta la destra, ma soprattutto rende più complesso invertire quel processo di destrutturazione culturale che è alla base della rottura del patto sociale tra i cittadini e i propri rappresentanti nei partiti e nei corpi intermedi. Che evidentemente da tempo hanno perso incisività e attrattività, non rappresentando più un punto di riferimento per un numero ampio di cittadini. L'astensione, infatti, è al tempo stesso sintomo e conseguenza. Capirlo il più in fretta possibile è compito di chi ha a cuore un'alternativa.
Continua a seguire la nostra Evening Review, la newsletter per chi ha scelto di sostenere Fanpage.it, di cui questo pezzo è un estratto. Ci si iscrive qui.
