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Perché non ha senso parlare di maschicidi? La nuova puntata di Direct, il podcast del direttore

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Partiamo come sempre dalle domande: oggi dalla domanda di Marco: “Perché parlate solo dei femminicidi e non dei maschicidi? Perché non fa notizia?”

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Caro Marco, non voglio addentrarmi nelle pieghe della tua domanda, né fare un processo alle tue intenzioni. Però, generalmente, questa domanda sottende un pensiero ben preciso: che ci sia una sorta di sovradimensionamento del problema dei femminicidi. E che in qualche modo il concetto e l’uso del termine “femminicidio” siano una specie di complotto contro gli uomini. Per due motivi, principalmente.

Uno: perché rende in qualche modo più grave l’omicidio se a morire è una donna per mano di un uomo.
Due: perché il femminicidio rappresenta il fenomeno più estremo di una cultura patriarcale che postula la prevaricazione dell’uomo sulla donna. E quindi, ogni uomo deve sentirsi in qualche modo responsabile, se una donna viene uccisa in quanto donna.

Ed è per questo che molti uomini parlano di maschicidi, cioè di donne che uccidono gli uomini in quanto uomini.

Uno: perché se c’è un corrispettivo, una nemesi del femminicidio, allora la gravità del femminicidio si attenua.
Due: perché se esistono i maschicidi viene meno anche l’idea che esista una cultura patriarcale che permea la nostra società. E quindi i maschi non devono più sentirsi colpevoli.

La seconda parte della tua domanda, Marco, sottende un altro pregiudizio: che i maschicidi ci siano, siano tanti quanto i femminicidi, che sia espressione di un fenomeno sociale e culturale uguale e contrario al patriarcato, ma non se ne parla proprio perché i giornali sono parte del grande complotto contro i maschi.

Ed è proprio da qui che bisogna partire.

Perché no, tanto per cominciare, non è vero che i maschicidi siano un fenomeno equivalente ai femminicidi.

Prendiamo i dati del 2024. Di cento omicidi in ambito familiare, 86 hanno visto come vittima una donna uccisa da un uomo. 61 volte su 100, l’assassino è stato il partner o l’ex partner.  Di fatto, la donna che uccide l’uomo è l’eccezione che conferma la regola. L’uomo che uccide la donna è la regola.

Seconda questione: non è vero che femminicidio e maschicidio sono fenomeni equivalenti. Noi sappiamo perché gli uomini uccidono le donne. Lo sappiamo perché i casi sono tantissimi, non solo in Italia, e le motivazioni sono pochissime. L’uomo geloso – e magari dobbiamo smetterla di dare alla gelosia un accezione positiva, no?. L’uomo che non sopporta di essere stato lasciato o rifiutato. L’uomo che non accetta l’autodeterminazione della donna. L’uomo che non sopporta che ci sia un altro uomo nella vita di quella che ritiene essere una sua proprietà. Al contrario, la casistica delle donne che uccidono gli uomini è talmente ridotta che è molto difficile elaborare statistiche sulle motivazioni. Banalmente: non c’è un pattern.

Questo ci porta alla terza questione: non è nemmeno vero che i due termini sono l’uno la nemesi dell’altro. Il femminicidio, per l’appunto, è un fenomeno diffuso con un matrice culturale ben precisa, quella per cui la donna appartiene al suo uomo. O, per dirla con le parole della sociologa e criminologa Diana Russell, che nel 1992 fu la prima a diffondere questo termine in un saggio intitolato per l’appunto “feminicide”, il femminicidio “include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l'esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine.”

Ora: l’Italia è un Paese in cui di atteggiamenti e pratiche sociali misogine ce n’è e ce ne sono state quante ne volete. Per dire:

Siamo il Paese in cui fino al 1968 c’era il reato di adulterio, ma solo per la donna che tradiva il marito, non il contrario. Siamo il Paese in cui solo nel 1981 sono state abrogate le disposizioni di legge sul delitto d’onore, che prevedeva attenuanti di pena all’uomo che uccideva una donna – moglie o figlia poco importa – che aveva “disonorato” la famiglia, e quelle sul matrimonio riparatore, per cui lo stupratore di una minorenne poteva aver salva la fedina penale se sposava la sua vittima.  Siamo il Paese in cui ancora oggi una commissione di maschi si riunisce, è accaduto recentemente in Piemonte, per attivare una stanza anti-aborto in un ospedale. Siamo il Paese in cui le retribuzioni medie delle donne, a parità di mansioni, sono del 6% inferiori a quelle dei loro colleghi maschi. Siamo il Paese in cui lavorano 75 uomini ogni 100 e 53 donne ogni cento. 

E mi fermo qua, per carità di patria.

Ora pensaci bene, caro Marco, e fammi l’esempio di una sola pratica sociale di segno opposto, di qualcosa che discrimina gli uomini a vantaggio delle donne. E no, le quote rosa non valgono, perché non sono pensate per discriminare, ma per correggere una discriminazione.

Certo, le cose sono migliorate sotto tanti aspetti, in questi decenni. Ma proprio per questo è pericoloso sentir parlare di maschicidi e di complotti contro gli uomini. Perché sono parole che hanno un fine politico ben preciso: quello di invertire la narrazione della realtà.

Trasformare gli uomini in vittime, per restituire loro parte del privilegio perduto.
Trasformare le donne in carnefici, per togliere loro diritti e protezione.

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